Contratti pirata. Non solo salario minimo: bisogna riformare anche la contrattazione

Associazione Comma2 – Lavoro è Dignità

Nel discorso in Senato dello scorso 26 ottobre, il Presidente del Consiglio ha (definitivamente?) liquidato il tema del salario minimo legale, derubricandolo nientemeno che a “specchietto per le allodole”; e spiegato che il contrasto alla povertà salariale deve invece passare (anche) dall’estensione della contrattazione collettiva, senza peraltro determinare criteri o limiti oggettivi sulla base dei quali ciò dovrebbe avvenire.

In linea con tale proposito, il 30 novembre la Camera dei Deputati ha approvato la mozione di maggioranza che dice no all’introduzione del salario minimo.

In particolare, il testo approvato dovrebbe impegnare il Governo a “raggiungere l'obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori attraverso una serie di iniziative, a partire dall'attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, per monitorare e comprendere motivi e cause della non applicazione”.

La prima osservazione da cui non ci si può esimere, è che dietro un’apparente infatuazione verso il pluralismo sindacale, il Governo mostra in realtà di ignorare candidamente (e più o meno colpevolmente) numeri e dati che sconfessano in partenza l’efficacia di tale ricetta.

Anzitutto perché la produzione di contratti collettivi, già oggi, è tutt’altro che esigua, come ben dimostra il 14° report periodico del CNEL, che riferisce di quasi 1000 contratti collettivi depositati, metà dei quali scaduti da anni. 

 

Un dato che dovrebbe far riflettere e soprattutto allarmare, considerato che una così vasta produzione, lungi dall’aver contribuito ad un significativo adeguamento salariale, ha invece alimentato uno status quo che vede i livelli retributivi italiani fermi al palo da almeno 30 anni, e ben al di sotto della media europea. 

Occorre pertanto domandarsi per quale ragione l’esercizio di una sacrosanta prerogativa costituzionale vada sempre più esprimendosi in contrasto con il diritto, irrinunciabile per ciascun lavoratore, di percepire una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

La risposta, ben nota agli “addetti ai lavori” ma non sempre adeguatamente raccontata dalle cronache, affonda le sue (datate) radici nella mancata introduzione di una legge attuativa dell’art. 39 della Costituzione, regolarmente scansata – vuoi per opportunismo, vuoi per pavidità – da qualsiasi Governo dal 1948 ad oggi.

Tale inerzia, unita all’impossibilità di stabilire un meccanismo di misurazione della rappresentatività delle sigle sindacali, ha contribuito a generare e diffondere a macchia d’olio il fenomeno dei cosiddetti “contratti collettivi pirata”, presenti oggi in numero preponderante fra tutti i contratti esistenti.

Si tratta, come noto, di accordi sottoscritti da Organizzazioni Sindacali per lo più fittizie o di comodo, e comunque sprovviste di adeguata rappresentanza sul piano nazionale, ciò considerando (ad esempio) il numero di iscritti e accordi stipulati, la presenza e la diffusione sul territorio, il “peso” e la partecipazione effettiva nelle trattative e, più in generale, nelle relazioni industriali.

E che soprattutto, nella loro componente economica, prevedono livelli retributivi da fame, decisamente più sfavorevoli rispetto ai loro “omologhi” negoziati dai confederali.

Siccome ogni azienda è libera di scegliersi il contratto collettivo che più le piace, può ben affermarsi (senza scadere nella dietrologia) che il fenomeno della pirateria salariale sia particolarmente ben visto, quando non incentivato, da tutte quelle realtà imprenditoriali che abbiano interesse ad innescare una vera e propria “competizione salariale al ribasso” (per usare le parole con cui la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 51/2015, ha definito tale tendenza).

E così, accade sempre più spesso che fra due lavoratori operanti nel medesimo settore, addetti alle stesse mansioni, ma assunti da aziende diverse, uno dei due percepisca uno stipendio decisamente inferiore rispetto al collega. Volendo fornire qualche dato in via meramente esemplificativa, si pensi che nel settore del commercio esistono, oggi, oltre 270 contratti diversi e che, a parità di profilo professionale, può registrarsi un delta retributivo sino a 500 Euro; senza contare i numerosi contratti collettivi che neppure prevedono il riconoscimento della 14^ mensilità, dovendosi il lavoratore ritenere “fortunato” laddove si veda attribuire un modesto superminimo (di solito, assorbibile) che vada ad “integrare” una retribuzione palesemente inadeguata.

Stante il vuoto normativo in materia, l’unica possibilità per (provare ad) ambire ad uno stipendio dignitoso è quella di fare causa invocando il diritto a percepire (quantomeno) una retribuzione in linea con quella prevista dagli accordi siglati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative, che la giurisprudenza (sia di merito che di legittimità) è da tempo concorde nel ritenere conforme ai canoni di “proporzionalità” e “sufficienza”.

Il che significa, anzitutto, dover sopportare tempi e costi di un giudizio, oltre al rischio di ritorsioni (più o meno esplicite) da parte del datore di lavoro.

Ma soprattutto esporsi ad un esito tutt’altro che scontato, stante la crescente tendenza delle Corti di merito a disconoscere il fatto che la maggior rappresentatività di CGIL, CISL e UIL debba ritenersi un “fatto notorio”; con la conseguenza di vedersi rigettare la domanda (per mancato assolvimento dell’onere della prova) e condannare pure al pagamento delle spese di lite.

Posto che, in ogni caso, un’eventuale pronuncia favorevole produrrebbe effetti esclusivamente nei confronti del singolo lavoratore, senza comunque neutralizzare tout court l’efficacia del contratto collettivo applicatogli.

A ciò si aggiunga che, oggigiorno, neppure la matrice “confederale” di un contratto collettivo costituisce di per sé garanzia di congruità delle retribuzioni in esso previste; si pensi ad esempio (e per tacer d’altro) all’annosa vicenda del CCNL Servizi Fiduciari, ripetutamente colpito da pronunce giudiziarie che ne hanno determinato l’inadeguatezza della componente retributiva, qualificandola perfino al di sotto della soglia di povertà.

Questo significa – checché ne dica il Governo – che nel contesto attuale, l’introduzione di un salario minimo garantito appare non solo come un intervento indifferibile, ma perfino insufficiente.

Da un lato, infatti, occorre determinare (sulla base di criteri oggettivi) una soglia sotto la quale il minimo retributivo non possa e non debba definirsi conforme ai canoni costituzionali; e quindi imporre un immediato adeguamento al rialzo di tutte quelle pattuizioni (anche già vigenti) che si attestano al di sotto di tale soglia.

E dall’altro, è indispensabile introdurre (finalmente) una seria legge di attuazione dell’art. 39 della Costituzione, che metta fine alla vera e propria piaga sociale dei contratti pirata.

Infatti, auspicando che non si voglia degradare a “specchietto per le allodole” anche l’art. 36 della Costituzione, è bene ricordare che trattasi di norma dalla natura immediatamente precettiva, che per l’effetto produce (o perlomeno, dovrebbe produrre) l’invalidità di qualsiasi accordo che attribuisca ai lavoratori una retribuzione non conforme ai criteri di “proporzionalità” e “sufficienza”.

Criteri che oggi più che mai, stante anche il progressivo innalzamento del costo della vita, occorre determinare in termini quanto più stringenti, per scongiurare il rischio che un esercizio fraudolento del pluralismo sindacale si traduca, di fatto, in un’elusione dell’articolo 36.

Ciò a maggior ragione, se si considera che la Cassazione ha costantemente negato la sussistenza, nel nostro Ordinamento, di un generale principio di parità retributiva dei lavoratori a parità di mansioni, fatte salve esclusivamente la garanzia di un minimo retributivo e la non discriminazione (si pensi, in particolare, all’art. 16 dello Statuto del Lavoratori).

Del resto, se davvero (come rivendica il Presidente del Consiglio) il contrasto al lavoro povero rientra fra le “priorità” di questo Governo, coerenza vuole che un simile obiettivo venga perseguito con la stessa intransigenza riservata a chi ancora si “permette” di rifiutare salari da fame, vedendosi costretto a confidare nel Reddito di Cittadinanza per sopravvivere.