• Interventi

Sull’abrogazione del rito Fornero

MAGISTRATURA DEMOCRATICA

“La riforma della giustizia civile”
QUINTO SEMINARIO,
22 marzo 2023 ore 15:30
Le controversie di lavoro 

Intervento di Alberto Piccinini 

Ringrazio Magistratura Democratica dell’invito a nome dell’associazione Comma2- Lavoro è dignità - che prende il nome dal capoverso dell’art. 3 della Costituzione -  associazione composta, tra l’altro, da oltre 300 avvocati giuslavoristi che difendono i lavoratori e le lavoratrici.

Dirò quindi alcune cose sul superamento del Rito Fornero “dal punto di vista” dei ricorrenti, su come abbiamo vissuto la riforma di oltre 10 anni fa e sulle nostre speranze per il futuro.

Ammetto che anche io all’inizio ho apprezzato [come il dott. Riverso] la riforma, soprattutto per le caratteristiche di sommarietà e celerità (analoghe al procedimento ex art. 28 Statuto dei Lavoratori): e dal punto di vista dei tempi indubbiamente la promessa è stata mantenuta, se consideriamo che la prima causa è stata discussa in cassazione all’udienza del 24 settembre 2014 (sentenza n.  23.669/2014) a poco più di due anni dall’entrata in vigore della legge.

Ben presto, però, ne sono venuti a galla i difetti, primo fra tutti la frammentazione sul piano processuale rispetto alle domande non strettamente connesse con il licenziamento, con conseguente duplicazione di cause (e di contributi unificati).

Per non parlare delle iniziali incertezze in materia di conseguenze per l’erronea scelta del rito, che ha visto proliferare decisioni di nullità e/o inammissibilità del ricorso: per noi avvocati sempre ricorrenti è stato un vero incubo e, in situazioni di dubbio sul nuovo rito, per il timore di sbagliare e incorrere in decadenze, spesso ci siamo trovati a portare avanti  parallelamente la stessa causa promossa con rito ordinario e con rito speciale, salvo poi abbandonare quella che sarebbe risultata sbagliata.

In ogni caso quel rito aveva portato, di fatto, i gradi del giudizio a quattro, con un inutile appesantimento del processo.

E allora ben venga la riforma, purché si dia effettiva applicazione al «carattere prioritario» delle controversie [indicata come la prima peculiarità dal prof. Dalfino]: in realtà, sulla base di una prima esperienza personale, ho verificato che questa cosa non tutti i giudici l’abbiano ancora capita: in un ricorso ex art 441 bis depositato dal mio studio la scorsa settimana il Tribunale di Bologna ha fissato la prima udienza al 15 novembre, a distanza di oltre otto mesi dal deposito… [a me sembra uno sproposito, e mi rassicura quanto detto dalla dott.ssa Coppetta,  richiamando il termine del 415 e quindi 60 giorni, ma sappiamo tutti che non è un termine perentorio e  non vorrei che fossero fondate le preoccupazioni del dott. Riverso, che lamenta il fatto che la fissazione viene affidata alla decisione discrezionale e insindacabile  del giudice]

Confidando che invece si voglia dare vera applicazione alla riforma, torneremo a trattare i processi come eravamo abituati a fare, con i 414 ma con un calendario di udienze concentrate, ravvicinate e calendarizzate : insomma un ritorno al futuro, che potrebbe essere un’occasione, per i magistrati che lo vorranno, per riscoprire – quantomeno per questo tipo di controversie – lo spirito della riforma del processo del lavoro di 50 anni fa,  grazie anche all’esperienza accumulata in oltre 10 anni di procedimenti sommari.

E su come potrebbero funzionare le nuove controversie di impugnazione di licenziamento vorrei proporre una riflessione: all’inizio della mia lunga carriera professionale ho conosciuto, infatti, il processo del lavoro per come doveva essere, grazie anche alla fortuna di avere, come presidente della sezione lavoro della Pretura, per tutto l’ultimo ventennio del secolo scorso, una persona come Federico Governatori. E non era isolato: la stragrande maggioranza dei magistrati che in quegli anni avevano scelto di fare i giudici del lavoro lo avevano fatto con spirito di servizio e cogliendo le opportunità che la riforma offriva per coniugare il diritto con la Giustizia.

Mi riferisco, senza fare troppo giri di parole, agli ampi poteri istruttori attribuiti al giudice dagli articoli 421 e 437 cpc.

La possibilità per il giudice, di “disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile” con la sola eccezione del giuramento decisorio, è palesemente finalizzata a contrastare un’applicazione formalistica del sistema delle preclusioni e, come ha da subito evidenziato Proto Pisani, origina dall’opportunità di supplire – ove necessario – persino alle deficienze della difesa tecnica della parte economicamente e socialmente più debole (1).

Con tutto il rispetto che provo per i miei colleghi che difendono i lavoratori, non posso escludere che alcuni di loro possano essere, “tecnicamente”, meno attrezzati di solidi studi legali datoriali. Non ritengo giusto che degli sprovveduti lavoratori che rivendicano diritti sicuramente lesi possano vederseli disconoscere esclusivamente per non essersi potuti permettere una tutela di qualità.

Concordo quindi pienamente con quelle pronunce (v. Cass. 21.314/2014) che invocano la necessità di garantire “una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento”, sollecitando un contemperamento del rigoroso sistema di preclusioni, in nome “delle esigenza della ricerca della verità materiale [richiamata anche dalla dott.ssa Leone] cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro” con il solo onere – come ha precisato Cass. n. 14.081 del 2020 – di “esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori ovvero di non farvi ricorso”.

 Ogni tentativo di circoscrivere questi poteri va quindi contro lo spirito della riforma del processo del 1973.

Del resto le Sezioni Unite da oltre vent’anni  (con la sentenza n. 761/2002), parlano di  “esigenze della ricerca della verità materiale”  stabilendo che [cito] “il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi e fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, (peraltro in capo al datore, per quanto riguarda la stretta problematica dei motivi del licenziamento; ma sempre in capo al ricorrente sul preventivo accertamento, ad esempio, della sussistenza di un rapporto subordinato) ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale (ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione)  indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti”.

Nel trascrivere questo principio, sempre le S.U. nella sentenza n. 11.353/2014 confermano: [sempre cito] «In questa sede va, dunque, ribadito che i poteri d'ufficio del giudice del lavoro possono essere esercitati pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa».

E per rispondere ai dubbio se, favorendo il lavoratore/ricorrente nell’accesso alle prove, il giudice perderebbe la sua imparzialità, rispondo lasciando la parola alla Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 198 del 2018 ci ha voluto ricordare una cosa banale: “contrasta col principio di uguaglianza l’ingiustificata omologazione di situazioni diverse”.

*

Vado a concludere.

Nella relazione del presidente della Sezione Lavoro della Corte d’appello di Bologna dott. Coco nell’anno giudiziario 2021/2022 lo stesso così esordisce: “In linea con la tendenza rilevata a livello nazionale si registra anche in Emilia-Romagna un decremento del contenzioso in materia più strettamente lavoristica, concentrato nel settore del lavoro privato, dove permangono gli effetti dell’attenuazione, frammentazione e tortuosità delle tutele previste in caso di licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo.”

Ma il decremento del contenzioso non è dato solo dalla generica compressione dei diritti intervenuta a livello legislativo negli ultimi 20 anni.

Fare una causa, oggi, comporta, per un lavoratore e una lavoratrice, oltre che dei costi certi (come il contributo unificato), anche il rischio, purtroppo negli ultimi anni sempre più diffuso, di essere condannato/a, in caso di soccombenza, a corrispondere a legale avversario, importi pari anche a due, tre mensilità del proprio stipendio. Oltre IVA, che il lavoratore, a differenza dell’azienda soccombente, non può scaricarsi. [un esempio di tutela differenziata???].

Non posso non approfittare di questo autorevole auditorio per lanciare un segnale d’allarme su tale fenomeno, concludendo il mio intervento con l’auspicio [potrei dire I have a dream..] che i giudici del lavoro, nel riprendere a mano il vecchio/nuovo rito per esaminare i casi di impugnazione di licenziamento, tengano conto di tre cose:

  • conservino, dall’esperienza del procedimento sommario, la necessaria elasticità di acquisizione del materiale probatorio, facendo anche uso - in caso, ad esempio, di previo accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato - della prova presuntiva che si avvalga di elementi di natura indiziaria (come ci insegna, da ultimo, Cass. n. 1095/2023);
  • tengano sempre a mente l’esigenza della ricerca della verità materiale cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, e la finalità di una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti in gioco;
  • abbiano a mente, nel regolamento delle spese, non solo quanto indicato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 2018 in tema di prossimità della prova, ma anche che l’art. 4 comma 1 del DM n. 55del 2014, nel fissare i parametri generali per la determinazione dei compensi in sede giudiziale, stabilisce che, ai fini della liquidazione, si deve tenere conto, tra l’altro, delle condizioni soggettive delle parti.

 

(1) In ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, p. 708

 

 

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