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Jobs Act: c'è un giudice a Strasburgo

di Enzo Martino
Articolo pubblicato in contemporanea con Volere la Luna.

C'era grande attesa per la decisione della Comitato Europeo dei Diritti Sociali sul contratto a “tutele crescenti” introdotto nell'ambito del Jobs Act.
Le aspettative di chi si augurava un altro colpo di scure alle nuove norme sui licenziamenti non sono andate deluse.
Il verdetto è molto netto: l'Italia ha violato la normativa comunitaria in materia di licenziamenti illegittimi intimati ai lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015.

Con decisione resa pubblica l'11 febbraio 2020, il Comitato di Strasburgo ha infatti pienamente accolto il ricorso collettivo presentato nel 2017 dalla CGIL, con il sostegno della Confederazione Europea dei Sindacati, nel quale si denunciava la violazione in particolare dell'art. 24 della Carta Sociale Europea (trattato internazionale ratificato e reso esecutivo dall'Italia che, insieme alla Convenzione europea dei diritti umani, assicura i diritti fondamentali ai cittadini dell'Unione).

Una delle pietre miliari della riforma renziana del mercato del lavoro è stata dunque ritenuta in rotta di collisione con il diritto dell'Unione; anzi, la sua stessa filosofia di fondo, quella cioè di volere predeterminare e limitare al massimo i costi degli abusi perpetrati in danno dei lavoratori, esce

clamorosamente sconfessata dal primo organismo europeo che ha avuto modo di pronunciarsi su di essa.

Ricapitoliamo la questione, richiamando man mano gli articoli già pubblicati sulle varie tappe di questa importante ma complessa vicenda.

Con il Jobs Act ed il cosiddetto “contratto a tutele crescenti,” in vigore appunto dal 7 marzo 2015, il governo Renzi aveva sostanzialmente abrogato per tutti i nuovi assunti l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (e cioè la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo), sostituendolo con una modesta indennità risarcitoria: da un minimo di quattro ad un massimo di ventiquattro mensilità, agganciate semplicemente all'anzianità (due mensilità ogni anno di servizio).

L'indennità in questione era stata poi aumentata dal cosiddetto “Decreto dignità”, passando così a sei mensilità nel minimo e trentasei nel massimo: misura del tutto insufficiente, non soltanto perché non aveva rimesso la reintegrazione al centro del sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, ma anche dal punto di vista della adeguatezza economica del risarcimento (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2018/07/04/lavoro-e-dignita-una-inversione-di-tendenza-troppo-timida/).

Sul punto, si era pronunziata anche la Corte Costituzionale italiana, che era intervenuta con la sentenza n. 194 del 2018, la quale riattribuiva al Giudice il potere di stabilire il risarcimento ritenuto più congruo tra il minimo ed il massimo di legge, in base a parametri anche diversi dalla mera anzianità di servizio (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2018/09/30/per-la-corte-costituzionale-il-lavoro-non-e-solo-una-merce/).

Ma anche l'intervento della Consulta non è stato ritenuto sufficiente dal Comitato Sociale Europeo, il quale ha riscontrato una perdurante ed evidente violazione della Carta Sociale, il cui art. 24 garantisce il diritto ad una tutela effettiva e realmente dissuasiva ad ogni lavoratore licenziato ingiustamente.

Il sistema sanzionatorio configurato dal Jobs Act, al contrario, escludendo a priori (salvo in rarissimi casi) la reintegrazione nel posto di lavoro e prevedendo comunque un tetto massimo al risarcimento dovuto al dipendente, è “tale da incoraggiare, o quantomeno a non dissuadere, il ricorso al licenziamento illegittimo”.

Il Comitato ribadisce dunque con forza quanto già stabilito in altra pronuncia che riguardava la Finlandia, e cioè che non è ammissibile un tetto massimo (plafond) al risarcimento dovuto alla vittima dell'abuso,.

Ciò vale tanto più in un contesto, quale quello italiano, nel quale una procedura conciliativa stragiudiziale consente al datore di lavoro di sottrarsi dal procedimento giudiziario pagando una somma esentasse pari a metà dell'indennizzo e così quindi di preventivare in misura ulteriormente ridotta i costi del suo abuso.

Al lavoratore vittima di un licenziamento illegittimo, secondo il Comitato, va invece assicurato il risarcimento integrale dal danno subito, senza limiti di sorta: solo così il sistema sanzionatorio può essere considerato veramente dissuasivo per i datori di lavoro e coerente con la normativa europea.

Le decisioni del Comitato Sociale Europeo, contrariamente a quelle della Corte di Giustizia dell'Unione, non sono immediatamente esecutive nel nostro ordinamento. Tuttavia hanno un grande peso politico e costituiscono precedenti autorevoli per i giudici nazionali, inclusa la stessa Corte costituzionale che espressamente lo afferma in due sentenze del 2018.

Peraltro, dopo questa decisione, è anche atteso il verdetto della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, a seguito di due rinvii pregiudiziali operati rispettivamente del Tribunale di Milano e dalla Corte d'Appello di Napoli in materia di licenziamenti collettivi, che, se accolti, potrebbero costituire un colpo mortale e definitivo all'impianto del Jobs Act (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/01/07/processo-al-jobs-act/).

Sulla stessa questione dei licenziamenti collettivi è chiamata a pronunciarsi nuovamente anche la Corte Costituzionale italiana, a seguito di ordinanza di rimessione da parte della  Corte d'Appello di Napoli, ed il verdetto del Comitato sociale in quel giudizio non potrà non pesare.

Del resto, risulta che il provvedimento sia già stato trasmesso al Comitato ministeriale del Consiglio dell'Unione Europea, il quale dovrebbe a propria volta emanare una risoluzione nei confronti dell'Italia.

Il legislatore italiano, dunque, deve al più presto adeguarsi per evitare il rischio di vedere di nuovo condannato il nostro Paese, questa volta per la mancata applicazione degli obblighi derivanti dalla appartenenza al Consiglio d'Europa.

La strada non può che essere quella di ripartire dall'art. 18 Statuto dei lavoratori, così come richiesto a gran voce dalla CGIL, richiedendo la sua estensione anche alle piccole imprese, nella quali gli indennizzi in favore delle vittime di licenziamenti ingiustificati sono ancora più inadeguati perché non possono superare le sei mensilità di retribuzione.

 

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