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A volte ritornano. Nostalgia del renzismo?

di Enzo Martino
Articolo pubblicato in contemporanea con Volere la Luna.

Era facilmente prevedibile che Confindustria prendesse a pretesto l'emergenza occupazionale determinata dalla pandemia per chiedere nuovamente la piena liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, riproponendo le ricette liberiste che hanno già dato esiti fallimentari in passato.
Ora, al coro mediatico si è unito un autorevole esponente del Governo, il ministro Gualtieri, il quale non ha trovato di meglio che affermare in più circostanze che, per sostenere l'occupazione, è necessario allentare i vincoli ai contratti a termine introdotti dal “decreto dignità” nell'agosto 2018, in particolare per quanto attiene alle causali da questo ripristinate per tentare di arginare l'esplosione di lavoro precario generata dallo sciagurato “decreto Poletti” del 2014. Come ha efficacemente scritto Gad Lerner sul Fatto Quotidiano del 20 giugno «è l’intera scuola economica bocconiana, nelle sue declinazioni liberiste e keynesiane, a sostenere che non ci sarebbero alternative [...] al ripristino del Jobs Act».
Ma è proprio vero che per sostenere l'occupazione non c'è altra via che quella di lasciare mano libera alle imprese nella prospettiva, già rivelatasi del tutto illusoria, che ciò comporti un beneficio sul piano dell'occupazione complessiva?


Il “decreto dignità”, pur con tutti i suoi limiti e le sue timidezze (https://volerelaluna.it/lavoro-2/2018/08/06/il-futuro-di-voucher-e-contratti-a-termine/), aveva cominciato a produrre dei primi risultati significativi, in particolare generando un sensibile aumento delle trasformazioni dei contratti a termine in contratti stabili.
Contrariamente a quanto avevano incautamente profetizzato molti commentatori interessati, la reintroduzione delle causali (cioè la necessità per l'impresa di dover giustificare le assunzioni a termine con esigenze temporanee effettive) non aveva generato né un'ondata di licenziamenti né un contenzioso giudiziario di massa. Più semplicemente, decorso il termine massimo fissato dalla legge, le imprese, piuttosto che privarsi di risorse sulle quali avevano investito ovvero di rischiare contestazioni indicando causali discutibili, hanno preferito in molti casi assumere stabilmente i lavoratori di cui avevano bisogno per esigenze strutturali.

 

Le misure di contrasto al precariato andavano quindi non certo rimosse, ma casomai rafforzate e soprattutto estese anche al di fuori dello stretto ambito del lavoro subordinato, riconoscendo più diritti e maggiori garanzie di stabilità anche ad altre forme di lavoro precario e non garantito. È appunto quello che il legislatore aveva iniziato a fare, ad esempio con l'opportuno intervento normativo del novembre 2019, stimolato dall'attenzione conquistata dalle lotte dei rider, con il quale si garantisce «la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente» (art. 2 del decreto n. 81/2015, modificato appunto dall'art.1 del decreto legge n. 101/2019, convertito in legge 2 novembre 2019 n. 128: https://volerelaluna.it/lavoro-2/2019/10/21/quali-tutele-per-i-ciclo-fattorini/).
Nel mezzo di questo percorso di lenta e travagliata ricostruzione di un quadro accettabile di garanzie in favore del frantumato mondo del lavoro, si è abbattuta la sciagura della pandemia, alla quale il Governo, nell'ottica emergenziale di evitare anche una catastrofe sociale, ha reagito con una misura coraggiosa quale il divieto totale di licenziamento per motivazioni economiche. Il blocco dei licenziamenti, che ha nel nostro ordinamento un solo precedente risalente al 1945, dovrebbe durare sino al 16 agosto (anche se il sindacato ne richiede una ulteriore proroga) ed è stato opportunamente accompagnato da un allungamento della Cassa integrazione guadagni e alla sua concessione generalizzata anche ai settori tradizionalmente non coperti. Nonostante il blocco di licenziamenti, che riguarda ovviamente solo gli assunti a tempo indeterminato, si è realizzato comunque un sensibile calo occupazionale, e i primi a pagare sono stati come sempre i precari, perché in molte situazioni non sono stati rinnovati i contratti a tempo determinato ovvero gli interinali in scadenza.
Per fare fronte al riavvio delle attività in conseguenza della emergenza epidemiologica, con l'art. 93 del “decreto rilancio” del 19 maggio n. 34 si è pertanto introdotta una deroga all'obbligo di indicare la causali nei rinnovi e proroghe dei contratti a tempo determinato, ma ciò soltanto fino al 30 agosto di quest'anno. Quindi, al pari del blocco dei licenziamenti, anche la deroga al “decreto dignità” sui contratti a tempo determinato ha un carattere temporaneo legato all'emergenza sanitaria.
Ora, però, si legge con sempre maggiore insistenza che il blocco dei licenziamenti deve essere superato quanto prima, perché congela una situazione comunque destinata inevitabilmente a esplodere, mentre le deroghe all'obbligo di indicare le causali andrebbe prorogato almeno fino a fine anno, con la speranza assai malcelata di un loro superamento definitivo.
Se si operasse in tale direzione, e cioè se si realizzasse anche solo una sfasatura temporale tra blocco dei licenziamenti e deroghe alle causali (e ancor più se si ritenesse di superarle in via definitiva), è facile prevedere una riesplosione immediata delle assunzioni a termine e delle somministrazioni a tempo determinato. Che ciò possa portare a una ripresa economica più rapida è tutto da dimostrare, ed anzi è smentito in particolare dalla fallimentare esperienza del Jobs Act.
La vera partita si gioca dunque su come si esce dall'emergenza. Se prevarranno le solite fallimentari ricette liberiste secondo le quali l'economia si rilancia solo eliminando “lacci e laccioli” alle imprese, il risultato sarà solo l’ulteriore frammentazione del mercato del lavoro, l'indebolimento ancor più marcato del potere contrattuale dei lavoratori e delle loro organizzazioni, l'incremento del lavoro povero e non garantito che, come scrive Lerner, negli ultimi sei anni «ha conosciuto incrementi record e ha goduto di legittimazione istituzionale».
Se questo è il vero obiettivo perseguito, se si vuole cioè far pagare il prezzo più alto della crisi alle classi lavoratrici che hanno tenuto in piedi il Paese in questi mesi drammatici, si abbia almeno il coraggio politico di dichiararlo apertamente.

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