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Siamo alla fine dei diritti dei lavoratori?

di Giuliana Quattromini
Articolo pubblicato su ilDesk - Quotidiano indipendente. 

Una riflessione dell’avvocato giuslavorista Giuliana Quattromini per il Desk.it

Qualunque diritto, per quanto – in ipotesi – espressamente riconosciuto dalla legge, è come scritto sull’acqua se non è in concreto azionabile davanti ad un giudice.

Il mondo del lavoro non fa eccezione. Oggi in Italia assistiamo ad un pauroso arretramento di tutela dei lavoratori a cagione dell’azione sinergica dello smantellamento delle garanzie normative, del ricatto occupazionale della delocalizzazione all’estero degli impianti produttivi, dello sfaldamento della rappresentatività sindacale (complice il fenomeno dei contratti collettivi cosiddetti pirata) e della crisi della giustizia del lavoro).

Limitiamo per il momento il discorso a quest’ultimo profilo. Tra il 2014 e il 2021 si è registrata su tutto il territorio nazionale una diminuzione media delle cause di lavoro di poco superiore al 30%

Non si pensi che il decremento derivi da una diffusa corretta applicazione, da parte delle aziende, di norme e contratti collettivi, tale – quindi – da far venir meno il bisogno di tutela giurisdizionale: al contrario, la presenza del lavoro “nero” resta fortissima e incoraggiata da politiche che, al netto dei ricorrenti proclami elettoralistici, di fatto ostacolano solo l’immigrazione regolare e non frenano quella irregolare; quanto ai controlli amministrativi, essi sono sempre più latitanti (vedi ad esempio, il proliferare degli infortuni sul lavoro).

Le cause della crisi della giustizia del lavoro sono altre.

 

Sicuramente il clima culturale è via via mutato negli ultimi decenni, anche grazie alla dominante retorica del “farsi imprenditori di se stessi” e dell’attribuzione al “mercato” di virtù salvifiche ed autoregolanti che, in realtà, esso non possiede (né ha mai posseduto). E il ricorso al giudice da parte del singolo lavoratore è visto con sfavore anche dai sindacati, che pur di mantenere la propria centralità preferiscono negoziare a prezzo vile con le aziende.

 

Ma molto di più ha giocato la distorta concezione secondo cui il servizio “giustizia” dovrebbe funzionare come un’azienda.

Paragonare l’attività d’un potere istituzionale a quella di operatori economici è insensato, non fosse altro perché il primo, a differenza dei secondi, non è libero di scegliere se, come e quando collocarsi sul mercato né di acquisire e calibrare da sé le necessarie risorse umane e materiali. Altrettanto insensato è parlare di “mercato” in riferimento ad un servizio, ab origine e per sua stessa natura, monopolistico. 

Tuttavia il comune sentire, pompato da anni di sciagurata propaganda dei media, ha fatto breccia anche nella mente dei decisori del settore, CSM e (buona parte) della Magistratura del lavoro.

Di qui una crescente burocratizzazione che richiede continui programmi di gestione del contenzioso miranti a progressive riduzioni delle pendenze, di guisa che ogni anno devono “prodursi” più sentenze dell’anno precedente e in tempi sempre più ridotti, ma a “costo zero”, vale a dire senza significative iniezioni di nuove risorse (a parte quelle, recenti, di precario personale di supporto: vedi gli addetti all’ufficio del processo).

Ma, per ridurre tempi e pendenze, i giudici finiscono con l’usare in modo distorto quel processo del lavoro la cui riforma nel 1973 – basata su concentrazione, immediatezza, oralità ed esercizio anche d’ufficio dei poteri istruttori – aveva modernizzato il settore e prodotto ottimi risultati protrattisi per oltre 15 anni.

Quel processo funziona a patto che il giudice sia parte attiva e non mero notaio che si limita a registrare lo squilibrio, tra le parti, in termini di forza economica e di accesso alle informazioni rilevanti.

Ma se le aspettative del CSM e dell’opinione pubblica sono quelle di una costante riduzione dei tempi di causa, non importa come realizzata, quello stesso processo diventa, nelle mani di giudici frettolosi per scelta o per necessità, uno strumento micidiale di ulteriore compressione dei diritti dei lavoratori.

Infatti, l’esigenza di ridurre numero delle controversie e tempi di loro trattazione (oggi ancor più pressante per l’urgenza dei vincoli del PNRR) fa sì che i giudici si sentano autorizzati a non istruire le cause, a risparmiare fatica e a scegliere svariate scorciatoie processuali per produrre sempre più sentenze, ma sempre meno ponderate.

Più di recente, il fenomeno si è aggravato anche a cagione delle norme emergenziali che in tempi di COVID hanno previsto la possibilità di contraddittorio e udienze meramente cartolari, possibilità oggi stabilizzata dalla cosiddetta riforma Cartabia: per l’effetto, non di rado il giudice emette la propria sentenza senza neppure aver visto in faccia parti e loro difensori.

Inoltre, la frequente condanna alle spese del lavoratore – spesso colpevole soltanto di non essere stato neppure messo in condizione di provare il proprio buon diritto – costituisce una formidabile disincentivazione rispetto al ricorso al giudice, nell’ormai radicata convinzione della sua inanità.

E infatti la percentuale dei rigetti delle domande dei lavoratori – pur non esattamente quantificabile per carenza di dati ufficiali, a riguardo, da parte del Ministero della Giustizia – è sotto gli occhi di tutti gli operatori della materia.

Insomma, alla riduzione “buona” del contenzioso, che deriva dall’equo funzionamento d’un processo tale da riconoscere tempestivamente i torti e così disincentivare resistenze in giudizio o azioni temerarie, si sostituisce quella “cattiva” conseguente alla sfiducia verso l’istituzione giustizia, che gioca tutta a danno della parte più debole (il lavoratore).

Il problema è ulteriormente aggravato dalla precarizzazione delle forme contrattuali (o dal loro mascheramento attraverso finte partite IVA): il lavoratore precario, timoroso di non vedersi rinnovare il contratto, ha molte più remore a convenire in giudizio il datore di lavoro. E queste situazioni possono protrarsi anche per dieci o quindici anni se non più, giacché il limite temporale dei contratti a termine viene agevolmente aggirato imputando i rapporti a soggetti imprenditoriali apparentemente diversi, ma in realtà riconducibili al medesimo gruppo societario.

SEDE

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