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Il decreto Dignità meglio del Jobs Act, ma va migliorato. Ecco come

Articolo pubblicato sulla rivista MicroMega in data 20 luglio 2018

Pubblichiamo l'intervento della giuslavorista Giuliana Quattromini enunciato presso la Commissione Lavoro della Camera lo scorso 14 luglio: “Negli ultimi anni la flessibilità è stata utilizzata come termine mite e rassicurante in luogo di quello allarmante angoscioso di precarietà. Da che cosa si sentono minacciate le grandi e piccole imprese per preconizzare che con questo decreto ci sarà una sciagura economica con un taglio di 8000 posti di lavoro?”. Intanto spera che il testo migliori in Parlamento: “Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato deve essere abrogato e bisogna intervenire per impedire che i datori di lavoro ogni 12 mesi provvedano ad una semplice sostituzione di un lavoratore con un altro”.

di Giuliana Quattromini

Innanzitutto vorrei ringraziare il Presidente e la Commissione lavoro per la opportunità che ci hanno dato - in qualità di avvocati giuslavoristi che quotidianamente difendono i lavoratori - di dar voce alla parte debole del contratto sinallagmatico. E nel fare questo non si può prescindere dalla considerazione secondo cui negli ultimi 25 anni, una politica non proprio “illuminata” ha legiferato cavalcando una vera e propria insofferenza dei datori di lavoro alle norme a tutela di chi lavora.
 

E così, passando attraverso leggi che hanno legalizzato il lavoro sommerso ridefinendolo “flessibile” sono nati il contratto di collaborazione a progetto, il lavoro occasionale, il job on call, il lavoro ripartito o job sharing e così via, con un vero e proprio ritorno al passato. A questa deriva ha fatto seguito una controriforma contrabbandata per modernizzazione che tra decreti e circolari ha tolto sempre più garanzie e i contratti di lavoro, sino ad oggi, hanno istituzionalizzato la “precarietà” indebolendo il sistema di tutele. 

Visto il dilagare di rapporti di lavoro sempre più instabili si potrebbe parlare più che di una flexicurity di una flexinsecurity. Sono due parole che nel frattempo sono diventate quasi sinonimi: flessibilità e insicurezza, cioè precarietà. La flessibilità è stata utilizzata come termine mite e rassicurante in luogo di quello allarmante angoscioso di precarietà.
 
E noi giuslavoristi abbiamo verificato sul campo che introdurre più flessibilità nelle tipologie dei rapporti di lavoro non vuol dire produrre più occupazione, ma anzi è vero il contrario come confermano studi dei più accreditati economisti italiani. 
 

È dimostrato che andare avanti per anni in un patchwork di collaborazioni non conduce ad uno sbocco costruttivo per un futuro lavorativo. Così come non esistono prove che una elevata mobilità tra svariati lavori atipici favorisce l’incontro tra domanda e offerta; al contrario, quanto più si passa da un lavoro atipico ad un altro, tanto più è probabile che scatti la trappola della precarietà.

Un curriculum di eterni contratti a termine, di collaborazione coordinata, di apprendistato, di somministrazione, di lavoro accessorio, di lavoro intermittente, oltre a logorare e ad indebolire le competenze del lavoratore può rimandare addirittura al punto di partenza.
 
Questo spreco di energie è profondamente ingiusto ed è tipico dei paesi in declino.
 
Ma la domanda che dobbiamo porci per cercare di individuare delle giuste soluzioni legislative che riequilibrino le parti sociali è la seguente: Da che cosa si sentono minacciate le grandi e piccole imprese per arrivare a dichiarare che il decreto dignità di cui si discute preconizza una sciagura economica con un taglio di 8000 posti di lavoro?
 
Noi riteniamo di essere ben lontani dalla sciagura economica preannunciata dalle imprese e di ciò sono convinte anche le organizzazioni sindacali che sono già intervenute nel dibattito parlamentare. Forse è proprio questa inversione di tendenza che – sia pur timidamente – disorienta i poteri forti.

E che cosa aggiunge di costruttivo a questo dibattito l’obiezione di alcuni secondo cui le norme del decreto incrementeranno il contenzioso? 
Forse che il modo migliore per far diminuire il contenzioso è azzerare i diritti?  

Purtroppo in questi anni si è andati avanti senza porsi il problema di smontare alcuni stereotipi principali. Primo fra i più difficili è l’idea che l’Italia avesse leggi troppo favorevoli ai lavoratori, troppo costose e difficilmente sostenibili in tempo di crisi. 

Ma è sotto gli occhi di attenti osservatori che il problema del nostro Paese non è quello di destabilizzare il sistema di garanzie del lavoro dipendente attraverso politiche di flessibilizzazione estrema dell’uso della forza lavoro imitando modelli americani o affrontando la competizione globale gareggiando sulla riduzione dei costi e delle tutele del lavoro. Al contrario, il paese deve puntare sulla qualificazione del lavoratore che è imprescindibile da un rapporto stabile e non precario.

E allora, le proposte dell’Associazione Comma2 – Lavoro è dignità vanno nella direzione di una più efficace e incisiva lotta al precariato e mi soffermerei su due punti in particolare: 
 
Contratti a termine 
 
Le “buone intenzioni” del decreto – che probabilmente ipotizza un uso dei primi 12 mesi di contratto “acausale” come periodo di prova nella speranza di un interesse del datore di lavoro, alla scadenza, a convertire il rapporto in contratto a tempo indeterminato in assenza di esigenze non temporanee – si scontrano con l’inveterata abitudine di tanti datori di lavoro di utilizzare questa forma contrattuale al solo scopo di “tenere sotto scacco” i propri dipendenti perennemente preoccupati dalla possibilità di perdere il lavoro allo scadere del primo termine utile. Per questa ragione è fondato il timore che decorso il primo anno – come ipotizzato da autorevoli consulenti aziendali – i datori di lavoro provvedano a una semplice sostituzione di un lavoratore con un altro.  
 
Per questo motivo, per quanto “coraggiosa” e in controtendenza sia stata la scelta di contenere l’uso dei contratti acausali, per scongiurare il pericolo sopra ipotizzato (che trasformerebbe in beffa una soluzione finalizzata all’uscita dalla precarietà) si propongono due alternative: la prima, che avrebbe lo scopo di controllare che il contratto venga stipulato per effettive ragioni obiettive e temporanee, comporta la reintroduzione della causale sin dal primo contratto; la seconda, che salvaguarderebbe l’opzione di un primo contratto acausale di durata non superiore a 12 mesi, comporta l’estensione del diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni non solo a tempo indeterminato (come previsto dall’attuale primo comma dell’art. 24 del Dlgs. 81/2015), ma anche a tempo determinato, com’è attualmente previsto per le sole lavoratrici madri e per i lavoratori stagionali, oltre che da una prassi assai conosciuta dalla contrattazione aziendale. Tecnicamente tale ultima disposizione sarebbe attuabile con la sola aggiunta delle parole “o determinato” al comma citato.

Inoltre dovrebbe essere chiaramente definito che il superamento della percentuale dei lavoratori a tempo determinato, attualmente punito solo con una irrisoria sanzione amministrativa, comporti come sanzione la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre a un risarcimento del danno.
 
Contratti di somministrazione
 
Anche per il contratto di somministrazione a tempo determinato si dovrebbe prevedere la causale a carattere temporaneo introdotta sin dal primo contratto.   
 
Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato dovrebbe essere abrogato, trattandosi di una forma di utilizzazione del lavoro “eversiva” non tanto perché precaria, ma perché disgiunge responsabilità ed impiego della prestazione lavorativa, anche quando questo costituisce un’esigenza stabile dell’impresa. Sarebbe, quantomeno, necessaria l’abolizione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 31 del d.lgs 81/2105 che autorizza la somministrazione a tempo indeterminato presso l’utilizzatore per i dipendenti assunti dall’agenzia di lavoro con rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In realtà, così, si autorizza una intermediazione fraudolenta atteso che ogni rischio d’impresa viene scaricato esclusivamente sull’agenzia di lavoro, la quale, peraltro, usufruisce anche del beneficio di non essere soggetta alla disciplina di cui alla Legge n. 223/91 in caso di chiusura o di licenziamenti collettivi.
 
Inoltre la somministrazione a tempo indeterminato, non essendo soggetta alla disciplina del contratto a termine, comporta che l'impiego della prestazione lavorativa a tempo indeterminato presso lo stesso utilizzatore non è neppure soggetta ai 36 mesi complessivi perché l’art. 19 del d.lgs 81/2015 parla soltanto di somministrazioni a tempo determinato. Anche sotto tale profilo l’impiego a tempo indeterminato della prestazione lavorativa presso l’utilizzatore permette lo sfruttamento dei lavoratori e la risoluzione del loro rapporto di lavoro senza alcun costo per l’utilizzatore e con costi irrisori per il somministratore.

Sarebbe, infine, opportuno reintrodurre la fattispecie della somministrazione fraudolenta, cancellata dal Jobs Act. 

La disposizione abrogata consentiva non solo al lavoratore, ma anche agli istituti (Inps), di agire quando la somministrazione aveva la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo.  Un modo efficace per fermare i noti fenomeni di dumping.
 
È a nostro avviso necessario ribadire che la tutela della dignità dei lavoratori si garantisce attraverso la reintegra o la riammissione in servizio in caso di accertato abuso del recesso, perché è il solo modo per assicurare loro un ruolo produttivo nella società e non di mero assistenzialismo. L’unico strumento idoneo a conseguire questo risultato è ripristinare l’uguaglianza tra gli assunti prima del 07 marzo 2018 e gli assunti dopo il 07 marzo 2015, abrogando integralmente il Dlgs. 23/2015.
 
SEDE

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