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LAVORO E DIGNITA': UNA PRIMA INVERSIONE DI TENDENZA?

 

Silvana Lamacchia
Enzo Martino

Le norme in materia di lavoro contenute nel decreto legge cosiddetto “Dignità”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 luglio, costituiscono un primo, timido passo diretto a contrastare la precarietà nonché a rafforzare le tutele in materia di licenziamenti illegittimi.

Iniziamo dalle misure introdotte in materia di contratti a tempo determinato.
Com'è noto, con il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 , convertito in legge 16 maggio 2014 n. 78 (il famigerato “decreto Poletti” dal nome dell'allora Ministro del lavoro), il governo Renzi aveva del tutto abolito le “causali” previste per giustificare l'apposizione del termine al contratto di lavoro. A presidio della natura temporanea, che dovrebbe ontologicamente connotare il contratto di lavoro a temine, rimanevano solo due limiti: - quello massimo di durata, fissato in 36 mesi e peraltro allungabile dalla contrattazione collettiva; - quello numerico del 20% rispetto agli assunti a tempo indeterminato, anch'esso ricco di possibili numerose deroghe.

Il decreto Poletti fu presentato come un intervento temporaneo, destinato ad essere rivisto con l'introduzione del cosiddetto contratto “a tutele crescenti”, ma non andò così perché, nonostante l'approvazione del “Jobs Act”, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato rimase nel nostro ordinamento ed anzi la relativa disciplina fu addirittura ulteriormente peggiorata con il decreto legislativo n. 81/2015, il quale stabilì tra l'altro che la violazione del tetto numerico non comportava la conversione del contratto a tempo indeterminato.
Il risultato inevitabile è stato che, esauritosi l'effetto “dopante” degli incentivi previsti nella finanziaria 2014 per i contratti a tempo indeterminato, le assunzioni a termine sono progressivamente aumentate, sino a raggiungere una percentuale superiore al 90% di quelle totali: una esplosione clamorosa, dunque, del lavoro precario, che il Governo Renzi, almeno a parole, si era impegnato a contrastare.

Il “decreto dignità”, rappresentando un'inversione di tendenza rispetto alla legislazione più recente, tenta almeno di porre un freno a questa situazione intollerabile, principalmente con le seguenti misure: a) accorciando il limite temporale complessivo da 36 a 24 mesi; b) riducendo da cinque a quattro il numero di proroghe e prevedendo anche un sia pur modesto onere contributivo ulteriore al fine di disincentivare i rinnovi; c) reintroducendo le causali sia nel contratto a tempo determinato sia nella somministrazione a termine (sostanzialmente quelle esistenti prima del decreto Poletti), ma con il grave limite che vedremo tra poco. Inoltre il decreto allunga il temine per l'impugnazione stragiudiziale dei contratti a termine da parte del lavoratore, portandolo da centoventi a centottanta giorni,e ciò in considerazione dell'evidente stato di soggezione in cui si trova il lavoratore tra un rinnovo e l'altro.

La direzione verso cui si muove l'intervento legislativo è senz'altro quella giusta, in quanto tende a ricondurre questa tipologia di contratto al suo naturale ambito: quello cioè di strumento non ammissibile per sopperire ad esigenze strutturali delle imprese. Sia per il diritto interno che per quello comunitario, infatti, il contratto a tempo indeterminato rappresenta la “forma comune” di rapporto di lavoro, ed il lavoro temporaneo costituisce, o meglio dovrebbe costituire, l'eccezione. Così non è stato con il Jobs Act il quale, come detto, ha generato solo ulteriore lavoro precario.
L'obiezione, ossessivamente ripetuta come un mantra su certa stampa, secondo la quale la misura rischierebbe di incrementare il contenzioso, è strumentale e speciosa: se le aziende rispetteranno le regole, ed assumeranno a termine solo in presenza di reali e comprovate esigenze di natura temporanea, non vi sarà alcuna conseguenza sul piano pratico. Peraltro ricordiamo che la gran parte del contenzioso di massa, che aveva intasato i nostri tribunali negli anni passati, era il prodotto di comportamenti assai poco virtuosi adottati da qualche grande azienda pubblica. Basta non ripetere gli errori del passato e nulla accadrà sul piano del processo del lavoro.

Il limite della nuova normativa è invece quello che essa non si applica ai contratti di durata inferiore ai dodici mesi, ma solo a quelli di durata superiore ovvero ai rinnovi ovvero ancora alle proroghe eccedenti i dodici mesi. Poiché però le statistiche dimostrano che la grande maggioranza delle assunzioni a tempo determinato è di durata breve od addirittura brevissima, risulta chiaro che la nuova disciplina avrà purtroppo un impatto ridotto. Meglio sarebbe stato quindi reintrodurre le causali sin dall’inizio del rapporto, com'era nel testo originario del decreto legislativo n. 368 del 2001.

Rappresenta un'inversione di tendenza, ma persino più timida di quella sui contratti a temine, anche l'aumento dell'indennità da corrispondersi in caso di licenziamento illegittimo al lavoratore assunto a “tutele crescenti”. Com'è noto, la reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori per il caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice (sia pure nel testo già depotenziato dalla Legge Fornero n. 92/2012) è diventata una tutela assolutamente residuale per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, essendo ormai riservata solo ai licenziamenti nulli o discriminatori ovvero del tutto privi di giusta causa per totale insussistenza del fatto contestato al lavoratore (con esclusione per il giudice di valutare la sproporzione del licenziamento a questi fini).
La reintegra è del tutto esclusa per il licenziamenti cosiddetti “economici” (cioè individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero collettivi per riduzione di personale). La tutela standard per i nuovi assunti (ed anche per coloro che abbiano cambiato lavoro) è dunque quella solo indennitaria (due mensilità per anno di anzianità, con un minimo di quattro ed una massimo di ventiquattro, che pertanto si raggiunge dopo dodici anni di anzianità).

E' assolutamente evidente che il regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act non costituisce un valido deterrente per scoraggiare i licenziamenti ingiustificati: il contratto a tutele crescenti rappresenta infatti una forma di precariato a tempo indeterminato (una sorta di contratto a tempo “indeterminabile” come qualcuno lo ha definito) che condiziona libertà e dignità dei lavoratori per tutta la durata del rapporto, rendendo assai poco effettivi anche gli altri diritti riconosciuti dalla legge. Il rimedio adottato nel nuovo decreto è un modesto aumento dei limiti minimo e massimo dell'indennità, che vengono portate rispettivamente a sei e trentasei mensilità (il massimo si raggiungerà dunque, per i primi assunti con il Jobs Act, soltanto nel 2033...).
Il rimedio adottato è chiaramente solo un modesto palliativo che, muovendosi all'interno della logica del decreto legislativo n. 23/2015, non riporta la tutela reintegratoria al centro del sistema. Anzi, mantenendo il doppio regime di tutela tra vecchi e nuovi assunti, non sottrae il decreto legislativo n. 23 alle censure di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Roma con ordinanza del 26 luglio 2017, sulla quale la Corte Costituzionale è chiamata a decidere il 25 settembre prossimo.

Per concludere, si segnala come, dopo gli iniziali annunci e le prima bozze di decreto, siano state espunte dalla manovra sia le norme relative all'abolizione della somministrazione a tempo indeterminato (cosiddetto “staff leasing”, pericolosa forma di scissione legale tra titolare formale del rapporto di lavoro ed effettivo beneficiario della prestazione) sia quelle relative alla tutela di fasce di lavoratori assolutamente privi di ogni garanzia, quali i “riders”.
Il Governo ha dunque su questo ceduto alle pressioni della associazioni imprenditoriali, ma ci si augura che nel corso del dibattito parlamentare in sede di conversione del decreto anche queste esclusioni vengano riconsiderate.

 

 

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