Salviamo la democrazia dal contagio

di Andrea Danilo Conte
Articolo pubblicato in contemporanea con Volere la Luna.

Addì 8 settembre 1887, si strinsero nella lega battellieri i mille lavoratori del mare insorti primi in Sardegna contro iniquo sfruttamento. Il popolo li seguì, affrontando miseria carceri, sacrifizi immensi, vittoriosamente”. Questa lapide venne posta a Carloforte, in Sardegna (ce lo ricorda Vincenzo Bavaro sulla Rivista Giuridica del Lavoro) l’8 settembre del 1907 dall’associazione generale degli operai a ricordo della nascita delle prime associazioni in difesa dei diritti dei lavoratori. Tutto nacque lì. Fu la lega dei minatori di Buggeru, nel comune di Carloforte ad indire lo sciopero del 4 settembre 1904 per protestare contro le schiavistiche condizioni dell’orario di lavoro. I carabinieri spararono sugli operai uccidendone tre. L’eccidio di Buggerru provocò la proclamazione del primo sciopero generale europeo da parte della Camera del lavoro di Milano. Era il 15 settembre 1904. Per la prima volta in Europa tutti i lavoratori si fermavano contemporaneamente, non uno sciopero di un settore o di una corporazione, ma un moto collettivo in cui tutti difendevano solidalmente i diritti di tutti.

 

L’essenza dello sciopero generale, la storia del movimento operaio che ne conseguì, erano già tutte previste in quella lapide, in quell’insurrezione contro “l’iniquo sfruttamento”, nel resto del “popolo che li seguì” e nella violenta reazione padronale che portò “miseria, carceri e sacrifizi immensi”. Non ci sono parole più attuali e commuoventi per spiegare cos’è uno sciopero generale. Oggi come allora, in uno sciopero generale il popolo si unisce al fianco di un gruppo più ristretto di lavoratori proclamando che lo sfruttamento di alcuni è un problema di tutti, che la compressione dei diritti non va mai a denominatore perché non si fraziona, rimane un problema collettivo, una lotta di popolo. Il modo migliore per assolvere agli “inderogabili doveri di solidarietà politica economica e sociale” imposti dalla Costituzione Repubblicana.

Perché ricordare oggi Buggeru e il primo sciopero generale? L’epidemia si espande soprattutto nelle fabbriche e si ferma adottando anzitutto misure di prevenzione e sicurezza, dispositivi di protezione, distanze minime.  È accaduto che in molti, troppi luoghi di lavoro si è continuato a lavorare senza nessuna protezione, senza l’adozione delle più elementari misure di prevenzione, in totale spregio ad ogni regola. Soprattutto nella logistica. Capannoni con quattromila dipendenti, fianco a fianco, senza mascherine, senza guanti, in un frazionamento della catena dei subappalti in cui nessuno sa più per chi lavora e cosa trasporta. E poi i dispositivi costano e rallentano la produzione. Nei giorni in cui si rischiava il linciaggio per una passeggiata solitaria sotto casa, l’ipocrisia nazionale si voltava dall’altra parte di fronte a queste vere e proprie fucine del contagio.

L’inutilità delle denunce e degli ultimatum ha costretto ad uno sciopero generale. Lo ha indetto USB per il 25 marzo, ma con la responsabilità che si conviene in questi tempi di emergenza per cui nei servizi essenziali, di assistenza e cura della persona, nella sanità, trasporti, igiene pubblica, lo sciopero è stato simbolico, di un solo minuto. Un riflettore puntato sul sonno civile di un popolo chiuso dentro la propria paura. Ora la Commissione di garanzia ritiene che quello sciopero abbia messo a repentaglio la sicurezza nazionale. In un durissimo attacco a chi ha indetto lo sciopero e a chi vi ha partecipato, avviando la procedura che prevede sanzioni anche molto pesanti, la Commissione scrive che quello sciopero ha “contribuito a generare un diffuso senso di insicurezza e a produrre incalcolabili danni alla collettività, determinando un non accettabile danno alle istituzioni e/o aziende coinvolte nelle attività di prevenzione e diffusione della pandemia” rischiando di “vanificare la azioni di contenimento della stessa. La sproporzione tra uno sciopero di un minuto e la catastrofe che si sostiene ne sia derivata rende evidente che la posta in gioco è ben altra. Siamo ancora una volta alla storia riscritta da chi ha vinto. Non sono le imprese che fanno a pezzi le norme governative, che si fanno beffa dei sistemi di protezione, che chiedono in decine di migliaia ai prefetti le deroghe sullo stop alla produzione certificando l’essenzialità della propria attività anche quando è il bricolage, non è chi deride la vita umana privilegiando il profitto a mettere a repentaglio la salute della collettività, a recare danno alle istituzioni sanitarie e democratiche, a vanificare il sacrificio di milioni di italiani, ma chi indice uno sciopero di un minuto per denunciare quelle vergognose ed impunite violazioni.

L’emergenza dunque porta il suo attacco ad uno dei diritti fondamentali dei lavoratori. La retorica bellica impone di stringersi intorno a chi comanda, quindi anche intorno al padrone, e poco importa se questi acconsente a pratiche di morte: ogni guerra ha i suoi caduti e le patrie fonderie in tempi di guerra hanno bisogno anche dei gioielli di famiglia.

Occorre dunque prendere la parola. Ristabilire la verità, ridefinire le cause e gli effetti, ricordare che sul fronte dei diritti sociali è stata operata una sistematica macelleria liberista che ha proliferato nella retorica dell’etichettare come “ottocentesco” e come anacronistico ogni diritto, ivi compreso quello di sciopero, un intoppo al magnifico progresso. Se è vero quanto scritto su questo sito (Pepino, Montanari), che “saremo dopo quello che siamo ora”, è ora che dobbiamo opporci alla compressione dei diritti del lavoro, avere il coraggio di rompere il coro del “rimanere uniti” che rischia di trasformarsi in un “rimanere sotto”, dicendo che lo stato di emergenza e quello che ne seguirà impongono che ci siano più tutele e diritti e non un’ulteriore deregolamentazione.

C’è un’ultima parola in quella lapide. Nel commentarla viene spesso dimenticata come se fosse meno importante, sta dopo “i sacrifizi immensi”, rileggetela con la punteggiatura: è “, vittoriosamente”. Centosedici anni dopo: virgola vittoriosamente.