Durata massima, decadenza e fraudolenza nei contratti a termine: le cinque vie della nomofilassi neotomista

di Francesco Andretta
Articolo pubblicato sulla rivista Labor.

Del tutto peculiare sono le fattispecie rappresentate dalla successione reiterata dei rapporti o contratti a termine o dei contratti di somministrazione a tempo determinato e della applicabilità o meno dell’istituto della decadenza legale.

La questione, alquanto altalenante nella sua soluzione sul territorio nazionale e molto dibattuta nel merito, è stata disaminata, quanto alla somministrazione a termine, a diverse riprese dalla S.C. con conclusioni ed iter logico-giuridico del tutto diversi tra di loro.

  1. In prima battuta, la Cassazione, con la sentenza n. 27758/2020, ha ritenuto applicabile all’istanza di tutela avverso il divieto di superamento della durata massima l’istituto della decadenza, assumendo, con una motivazione autoreferenziata, che “in ogni caso, è pacifico che la impugnativa va proposta alla cessazione del contratto per effetto del quale o nel corso del quale si determina il superamento del detto termine, essendo evidente la liceità dei singoli contratti a termine sotto ogni profilo di legge quanto meno prima della stipula del contratto che determina il superamento del termine dei 36 mesi, che comporta il sorgere di un onere per il lavoratore di contestare stragiudizialmente la violazione di legge;” (capo 3.2),

Ossia, che il lavoratore che intende avvalersi della trasformazione a tempo indeterminato di una serie reiterata abusiva di contratti di contratti a termine deve impugnare il contratto a termine, entro lo spirare dei termini che decorrono dalla fine del contratto (ed a seconda della legislazione tempo per tempo vigente) che ha determinato il superamento della durata massima (nel caso di specie 36 mesi).

Ma, invero, diverse sono le pronunce della Cassazione che assumono, con una motivazione del tutto apparente ed a volte contraddittoria, la applicabilità dell’istituto della decadenza nei casi di reiterazione abusiva dei rapporti a termine in somministrazione: cfr. Cass., del 21.11.2018 n. 30134; Cass. del 18 dicembre 2018, n. 32702; Cass. del 30 settembre 2019, n. 24356; Cass. del 25 febbraio 2020, n. 5037; Cass. del 26 aprile 2021, n. 11001.

Le argomentazioni sono varie, ma tutte partono dall’assumere, in maniera del tutto assiomatica, per utilizzare una parafrasi della matematica, che nei casi di reiterazione dei rapporti negoziali temporanei, anche qualora la reiterazione si protragga oltre una data certa massima ragionevole e tollerabile per l’ordinamento interno (36 mesi e, dal D.L. 78/2018 conv. con modificazioni in L. 96/2018, 24 mesi): l’impugnazione dell’ultimo contratto in somministrazione a termine non si estende anche a tutti gli altri contratti della serie reiterata; l’impugnazione dell’ultimo contratto si estende a tutta la serie dei contratti reiterati soltanto qualora lo stacco tra i rapporti frazionati e/o interrotti tra di loro sia inferiore ai termini di impugnazione di ogni singolo contratto preso in esame nella serie reiterata in ragione del metus del lavoratore a non vedersi rinnovare il futuro contratto qualora impugnasse il pregresso; altri, ancora, all’opposto, ritengono che non possa ravvisarsi alcun metus del lavoratore in quanto il rapporto a termine è privo di alcuna di stabilità reale e non può essere suscettibile di tutela la mera aspettativa del lavoratore al rinnovo contrattuale.

  1. L’assioma, frutto una autoreferenziata nomofilassi, priva di riscontro normativo ed argomentativo, cozza però, e notevolmente, con i principi generali di diritto e le norme stesse che disciplinano l’istituto della decadenza legale e con il principio di effettività delle tutele giurisdizionali: questo il recente approdo della Cassazione che sconfessa, e finalmente, sé stessa e che rende onore alla logica, prima di tutto che al diritto.

Il che, sebbene tutte le più recenti argomentazioni (cfr. Cass. sent. n. 22861/2022, n. 23494/2022 e n. 29570/2022) vengano sorrette sulla scorta della nomofilassi della CGUE, affidando alla fonte eteronoma eurounitaria la soluzione della questione prima ancora che ricercarla proprio nel diritto interno, dove già risiedono, invece, tutti gli elementi sufficienti e necessari per concludere verso l’inapplicabilità dell’istituto della decadenza legale nelle fattispecie in cui venga dedotta una reiterazione abusiva di rapporti negoziali a termine (siano essi in somministrazione o meno) oltre una durata massima ragionevole e tollerabile per l’ordinamento giuridico in ragione dei canoni di eccezionalità e temporaneità che connaturano il rapporto negoziale a termine.

E tanto, sia quando tale reiterazione superi una durata massima ragionevole e tollerabile (24 o 36 mesi secondo la disciplina ratione temporis vigente) ove al superamento di quella data certa scatti la presunzione assoluta, iuris et de iure della fraudolenza ed elusione del rapporto di lavoro principe; sia per il caso in cui la reiterazione o sequela dei rapporti di lavoro a termine, indipendentemente dal superamento dei 24/36 mesi, venga messa in atto per eludere la disciplina del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con analisi della sequela demandata all’accertamento, anche d’ufficio (trattandosi di nullità di protezione), del giudice secondo una serie di canoni suggeriti dalla nomofilassi di legittimità ampiamente richiamata ed applicata già nei rapporti a termine soggetti alla disciplina del codice della navigazione (ove, come nel caso della somministrazione a termine, non è prevista dal legislatore interno alcuna tutela avverso una reiterazione abusiva di contratti a termine oltre una data certa massima ragionevole).

  1. Conferma dell’applicabilità dell’istituto avverso la fraudem legis dell’art. 1344 c.c. è la più recente ancora pronuncia della S.C., la sent. n. 29570/2022, nell’ambito della somministrazione a termine in cui si ravvisava una sequela reiterata di contratti a termine ed indipendentemente dal superamento dei 24/36 mesi.

Le tre pronunce del 2022 in commento analizzano compiutamente anche la disciplina della somministrazione a termine con ampi richiami alla disciplina succedutasi nel tempo ed agli arresti della CGUE, anche sul principio di interpretazione conforme: sotto tali due aspetti le pronunce costituiscono una lectio magistralis, sintetica ed esaustiva, che il cultore della materia e l’operatore del diritto (sia esso avvocato, docente o giudice) non potrà trascurare.

Osservazione preliminare è che le patologie della sommatoria dei rapporti a termine, frazionati e/o interrotti tra di loro, che si fanno valere con l’esercizio della tutela sulla durata massima, non afferiscono ad una nullità relativa ai vizi genetici del contratto a termine (causale), ma una nullità assoluta derivante dal superamento di una durata massima ragionevole, ossia dall’uso reiterato nel tempo dei contratti a termine che, in ragione della loro sequela, perdono i requisiti fondanti della eccezionalità e temporaneità che li connaturano in maniera ineludibile ed essenziale e, per l’effetto, realizzano una frode alla legge della disciplina del modello negoziale principe del lavoro a tempo indeterminato. 

  1. In sede di succinta ricostruzione del quadro storico della normativa da applicarsi alla somministrazione a termine, va rilevato (capo 3.1., Cass., sent. n. 29570/2022) che «L'art. 22 disciplina i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro e, al comma 2, per l'ipotesi di somministrazione a tempo determinato, estende al rapporto tra agenzia di somministrazione e lavoratore la disciplina di cui al d. lgs. n. 368 del 2001 "per quanto compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all'articolo 5, commi 3 e seguenti", che riguardano la successione dei contratti. Prevede, inoltre, che "il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore". L'art. 27 concerne la somministrazione irregolare, avvenuta cioè "al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e)", e prevede tra l'altro che "il lavoratore p(ossa) chiedere, mediante ricorso giudiziale [...] la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione". Ai sensi del successivo art. 28, relativo alla somministrazione fraudolenta, "Ferme restando le sanzioni di cui all'articolo 18, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore, somministratore e utilizzatore sono puniti con una ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione". La legge n. 92 del 2012, che (art. 1, comma 9) ha aggiunto il comma 1 bis all'art. 1 del d. lgs. n. 368 del 2001 ...” (secondo cui il primo rapporto a termine può essere acausale sino a 12 mesi ed i contratti collettivi stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere che il primo contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga “nell'ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all'articolo 5, comma 3, nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell'ambito dell'unità produttiva”).

La L. 92/2012 «ha inoltre modificato l'art. 20, comma 4, d. lgs. n. 276 del 2003, inserendo dopo il primo periodo, la seguente statuizione: “È fatta salva la previsione di cui al comma 1-bis dell'articolo 1 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368".

Il D.L. 34/2014, convertito con modificazioni nella L. 78/2014 «è intervenuto sull'art. 20, comma 4, d.lgs. n. 276 del 2003 ed ha soppresso i primi due periodi della disposizione (il testo del comma 4, dopo le modifiche apportate dal decreto legge citato, è il seguente: "La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione di lavoro a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all'articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368")».

Il D.L. 34/2014 ha eliminato del tutto, per il contratto di somministrazione a tempo determinato, le causali giustificative, che già la L. 92/2012 aveva escluso per la prima missione.

Il D. Lgs. 81/2015 ha abrogato le disposizioni del D.Lgs. 276/2003 sopra richiamate ed ha ridisegnato la disciplina della somministrazione di lavoro nel capo IV, artt. 30 e seguenti; ed in sintesi (capo 3.5, ibidem) la novella del 2015 dispone la acausalità somministrazione a tempo determinato, non individua un termine di durata massima delle missioni (contrariamente all'art. 19 per il lavoro a termine), non pone limiti alle proroghe e ai rinnovi (sanciti invece dall'articolo 21), “ma prevede unicamente limiti quantitativi di utilizzazione (art. 31, comma 2), la cui individuazione è rimessa ai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore”.

  1. Ricostruita poi la giurisprudenza nomofilattica eurounitaria della CGUE ed osservato che le pronunce della CGUE, in quanto esercizio esclusivo della corretta ed uniforme interpretazione delle norme dell’Unione, sono cogenti e retroattive (come già Cass. sent. n. 13066/2022, pag. 7, penultimo capoverso, e Cass. sentt. n. 2648/2016 e n. 22558/2016, e come già, da ultimo, Corte Cost. sent. n. 67/2022), sì da non potersi revocare in dubbio la vincolatività del principio di interpretazione conforme a carico del Giudice interno ed il suo onere di fare tutto quanto sia possibile per interpretare ed applicare le norme interne laddove esse violino le finalità della Direttiva 104/2008/CE, non self executive (al pari della Direttiva 70/1999/CE) o ne ostacolino il perseguimento (visto l’obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 4 TUE), in maniera euro-orientata, col che facendo anche applicazione degli ampi poteri di disapplicazione di cui all’art. 288 TFUE, la S.C. sancisce che «Come osservato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 14 ottobre 2020, JH c. KG, C-681/2018 (punto 61) e nella successiva sentenza del 17 marzo 2022, Daimler AG, Mercedes-Benz Werk Berlin, C-232/20 (punti 31, 34), dalla formulazione di tali disposizioni risulta che il termine “temporaneamente” non abbia lo scopo di limitare l’applicazione del lavoro interinale a posti non previsti come permanenti o che dovrebbero essere occupati per sostituzione, poiché tale termine caratterizza non il posto di lavoro che deve essere occupato all’interno dell’impresa utilizzatrice, bensì le modalità della messa a disposizione di un lavoratore presso tale impresa. È il rapporto di lavoro con un’impresa utilizzatrice ad avere, per sua natura, carattere temporaneo» (capo 33, sent. n. 23494/2022).

E sancisce altresì, ai successivi capi 36 e 37, che «Nondimeno, come osservato dalla Corte di giustizia nella sentenza del 14 ottobre 2020, C-681/2018, la Direttiva mira a conciliare l’obiettivo di flessibilità perseguito dalle imprese con l’obiettivo di sicurezza che risponde alla tutela dei lavoratori. Questo duplice obiettivo risponde così alla volontà del legislatore dell’Unione di ravvicinare le condizioni del lavoro tramite agenzia interinale ai rapporti di lavoro «normali», tanto più che, al considerando 15 della direttiva 2008/104, il medesimo legislatore ha esplicitamente precisato che la forma comune dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato. La direttiva in argomento mira, di conseguenza, anche ad incoraggiare l’accesso dei lavoratori tramite agenzia interinale ad un impiego permanente presso l’impresa utilizzatrice, un obiettivo che trova una particolare risonanza al suo articolo 6, paragrafi 1 e 2 (v. Corte di Giustizia, C-681/18 cit., punto 51; Corte di Giustizia C-232/20 cit., punto 34). Un lavoratore temporaneo può quindi essere messo a disposizione di un’impresa utilizzatrice al fine di coprire, temporaneamente, un posto di natura permanente, che egli potrebbe continuare ad occupare stabilmente (Corte di Giustizia, C-232/20 cit., punto 37)».

Ed ancora, al capo 46: «Nella più recente sentenza del 17 marzo 2022, nella causa C-232/20, la Corte di giustizia ha aggiunto un ulteriore tassello alla valutazione del giudice, evidenziando come missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, ove conducano a una durata dell’attività presso tale impresa più lunga di quella che “possa ragionevolmente qualificarsi «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore”, potrebbero denotare un ricorso abusivo a tale forma di lavoro, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104» (vedasi anche, sul punto, Corte di Giustizia, sentenza del 18 dicembre 2008, Andersen, C-306/07, punto 52 e sentenza del 14.10.2020 causa C-232/20 cit. punto 58).

Sicché, “La necessaria temporaneità delle missioni deve essere in ogni caso assicurata, a prescindere da una previsione normativa in tal senso nei singoli ordinamenti nazionali”.

  1. All’uopo richiamato il principio di interpretazione conforme sancito dalla CGUE (cfr., tra le varie, sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C-554/14; sentenza del 24 giugno 2019 nella causa Poplawsky II, C-573/17; pronunzia Dominguez del 24 gennaio 2012, C-282/10; sentenza del 19 settembre 2019, Rayonna prokuratura Lom, C-467/18, e giurisprudenza ivi citata; sentenza Pfeiffer del 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, della Grande Sezione) ed osservato (al capo 53, Cass. sent. n. 23494/2022) che “Il canone esegetico dell’interpretazione conforme del diritto interno al diritto dell’Unione costituisce patrimonio ormai acquisito nella giurisprudenza di questa Corte” (tra le altre più sopra richiamate, anche Cass. sentt. n. 10414/2020 e n. 24325/2020), ai successivi capi 61 a 64 della medesima sentenza in commento, la S.C. ricorda che “Inoltre l’art. 1344 c.c. è già stato evocato come strumento utile per evitare che, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia possibile porre in essere una condotta che integri una frode alla legge, e quindi quale misura adeguata e idonea a prevenire abusi nel susseguirsi di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, affidando al giudice del merito il compito di desumere da “elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l’arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti, l’uso deviato e fraudolento del contratto a termine” (v. Cass. n. 59 del 2015; Cass. n. 14828 del 2018).

Il fatto che il d.lgs. n. 81 del 2015, e prima ancora il d. lgs. n. 276 del 2003, non contenga alcuna previsione esplicita sulla durata temporanea del lavoro tramite agenzia interinale non impedisce di considerare tale requisito come implicito ed immanente del lavoro tramite agenzia interinale, in conformità agli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, non comportando una simile lettura una interpretazione contra legem.

È compito del giudice di merito stabilire caso per caso, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso l’impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, sì da realizzare una elusione delle norme imperative ai sensi dell’art. 1344 cod. civ. e, specificamente, degli obblighi e delle finalità imposti dalla Direttiva, da cui discende, secondo l’ordinamento interno, la nullità dei contratti”.

  1. Ed è lo stesso Collegio che suggerisce la bussola da perseguire onde sviluppare le argomentazioni asseverative di tale fraudolenza: “In tale compito il giudice nazionale può avvalersi delle indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia che nella sentenza C-681/2018 cit., [...]”. Gli stessi che la S.C., in altre pronunce (cfr., tra le varie, sentt. n. 59/2015, n. 62/2015, n. 11997/2018, n. 12943/2018, n. 11997/2018 e 13177/2018) sui contratti a termine sottoposti al codice della navigazione ed alla Direttiva 70/1999/CE, indica in quelli che la sent. n. 11997/2018, al capo 17 in poi, richiamando anche la pregressa sent. n. 5787/2014, sancisce: “Ciò non toglie che, pur ammessa, in linea di principio, la legittimità del termine apposto a contratti di arruolamento con la causale sopra ricordata e ribadita l'idoneità della disciplina dettata dal codice della navigazione a prevenire abusi, tuttavia non si può escludere che, in concreto, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia possibile porre in essere una condotta che integri una frode alla legge sanzionabile ai sensi dell'art. 1344 cod. civ.. [...] Ciò detto, all'accertamento dell'utilizzazione abusiva del contratto a tempo determinato si può addivenire attraverso una ricostruzione degli elementi allegati nel processo che, congiuntamente valutati, convergano nel far ritenere provato un intento fraudolento del datore di lavoro, il quale ripetutamente si sia avvalso di prestazioni di lavoro a termine. 19. Si tratta di una indagine demandata al giudice di merito, il quale dovrà desumere, con procedimento logico deduttivo, da elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l'arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e di ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti, l'uso deviato e fraudolento del contratto a termine (per una accurata ricostruzione del procedimento di accertamento della prova attraverso presunzioni si veda Cass. 13.5.2014 n. 5787)”.
  1. In conclusione, non può revocarsi in dubbio che, se il superamento di una durata massima ragionevole di 24/36 mesi prevista per i contratti a termine in generale (ma non per quelli della somministrazione) identifica la durata massima tollerabile oltre la quale data certa scatta la presunzione assoluta, iuris ac de iure, della violazione dei canoni e requisiti specifici di temporaneità ed eccezionalità e, dunque, la condotta in fraudem legis della disciplina principe del lavoro a tempo indeterminato, non si può escludere che, a prescindere dal superamento di tale durata, possa e si debba riscontrare la medesima condotta elusiva alla luce dell’art. 1344 c.c..

Venendo al cuore delle questioni impegnate, dalle tre pronunce si possono evidenziare le “cinque vie”, di sapore neoscolastico, per giungere alle conclusioni, in maniera oltremodo ineccepibile, già sopra palesate sulla inapplicabilità dell’istituto della decadenza legale di cui all’art. 32, L. 183/2010 e s.m.i..

Prima di ogni cosa, vista la più ampia digressione sui contratti a termine in generale qui impegnata, va posta in rilievo la dizione dell’art. 5, co. 4-bis, del D.Lgs. 368/2001, introdotto dalla L. 247/2007 (art. 1, co. 40 e 43), rispetto a quella dell’art. 32, L. 183/2010, comma 3, lett. a, (che riforma l’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 ed in cui refluisce, a seguito della riforma della L. 92/2012, anche la lett. d, del co. 3, art. 32, L. 183/2010): il combinato disposto evidenzia che il regime di decadenza, per la proposizione dell’azione giudiziale, abbia riguardo esclusivamente la soluzione di questioni relative alla legittimità del termine apposto al contratto ai sensi degli artt. 1 (causale), 2 (rapporti a termine del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali) e 4 (numero di proroghe consentite) del D.Lgs. n. 368/2001.

 

  1. Espressa previsione e tassatività dell’istituto della decadenza legale: divieto di interpretazione estensiva ed analogica.

L’espresso rinvio dell’art. 32, co. 3, lett. a, della L. 183/2010 ai soli e singoli casi disciplinati dall’art. 1, 2 e 4 del D.Lgs. 368/2001, impone di ritenere che il regime della decadenza legale si possa applicare esclusivamente a tali fattispecie.

Risulta, altresì, pacifico che l’istituto della decadenza legale, come dispongono l’art. 2968  c.c. (“Le parti non possono modificare la disciplina legale della decadenza [2936] né possono rinunziare alla decadenza medesima [2937], se questa è stabilita dalla legge in materia sottratta alla disponibilità delle parti”) e l’art. 2936 c.c., ha natura tassativa e di norma imperativa di diritto: sicché esso non è suscettibile di applicazione estensiva od analogica, come disposto dall’art. 14 Preleggi. E, atteso il chiaro tenore degli artt. 28 e 39 del D.Lgs. 81/2015, ogni qual volta si voglia verificare se l’istituto della decadenza possa essere applicabile anche all’ipotesi della violazione della durata massima, si incorre costantemente nel divieto di interpretazione diversa da quella letterale del testo normativo (art. 12 Preleggi). 

Tale interpretazione va asseverata anche in costanza del riordino della disciplina dei contratti atipici ed a termine di cui all’art. 28 del D.Lgs. 81/2015, laddove espressamente la norma, al comma 1, dispone solo, ed in maniera del tutto generica, che “L'impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, con le modalità previste dal primo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, entro centoventi giorni dalla cessazione del singolo contratto”.

D’altrocanto, l’art. 39, co. 1, del D.Lgs. 81/2015, non fa altro che richiamare l’art. 6 della L. 604/1966 come innovato dalla L. 183/2010 e novellato dalla L. 92/2012; ed infatti, la norma espressamente dispone che “Nel caso in cui il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l'utilizzatore, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, trovano applicazione le disposizioni dell'articolo 6 della legge n. 604 del 1966, e il termine di cui al primo comma del predetto articolo decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore”.

L’art. 6 della L. 604/1966, che proprio l’art. 32, co. 3, lett. a e d, ha novellato, prevede il regime decadenziale solo per le ipotesi di nullità della clausola temporale e del limite di proroghe; giammai per le ipotesi di superamento della durata massima e tollerabile.

Ed è altresì chiaro e manifesto, per esplicitare le prime “due vie” che sono concorrenti tra di loro, come, da un lato, la disciplina sulla decadenza possa essere applicata solo allorquando il legislatore la preveda espressamente; e, dall’altro lato, come tale regime decadenziale (al pari del regime sulle prescrizioni) non sia applicabile in via di interpretazione estensiva od analogica, per divieto fattone dallo stesso legislatore (art. 14 Preleggi).

 

La decadenza è, infatti, un istituto giuridico che determina l'inopponibilità di un diritto per il mancato esercizio dello stesso, da parte del titolare, entro un termine predeterminato. Alla base della decadenza vi è, dunque, la fissazione di un termine perentorio, da parte del legislatore o in forza di una clausola contrattuale, entro cui il titolare del diritto deve esercitarlo.

La decadenza legale, disciplinata dall’art. 2968 c.c., ovvero prevista da una norma di legge, è un istituto eccezionale che deroga al principio generale secondo il quale l'esercizio dei diritti soggettivi non può essere soggetto a limiti.

Essa, dunque, viene posta dal legislatore mediante l’introduzione di una norma espressa: tale crisma non è posseduta dall’art. 28 né dall’art. 39 del D.Lgs. 81/2015, i quali, come visto, si limitano esclusivamente a sancire che “l’impugnazione del contratto a termine” deve avvenire entro una certa data temporale a decorrere dalla scadenza, appunto, del contratto a termine.

La norma, infatti, si riferisce al contratto a termine, usando la locuzione al singolare, ma non ad una serie di contratti a termine: dato letterale che è coerente con la disciplina dell’art. 32, co. 3, L. 183/2010 e s.m.i. (L. 92/2012).

Tale interpretazione, che emerge dal singolare usato dal dato testuale della norma e dall’eccezionalità e tassatività dell’istituto e dal correlato divieto di interpretazione estensiva, va asseverata anche in costanza del riordino della disciplina dei contratti atipici ed a termine di cui agli artt. 28 e 39 del D. Lgs. 81/2015, laddove espressamente le norme, al rispettivo comma 1, dispongono solo, ed ina maniera del tutto generica, che “L'impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, con le modalità previste dal primo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, entro centoventi giorni dalla cessazione del singolo contratto”. Regime del primo termine poi ricondotto a 180 giorni dal D.L. 87/2018.

  1. Quanto alla “terza via”, che concerne l’esegesi e nomofilassi dell’istituto della decadenza legale, risulta dirimente, all’esatta ricostruzione normativa applicabile ed alla soluzione della questione, rilevare, dapprima, quanto sanciva l’art. 32, co. 3, lett. a) e lett. d), L. 183/2010, laddove viene sancito, al co. 3, che “Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre”, e cioè:
  • a):ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;”.
  • d): “all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.”.

Per poi osservare quanto dispone l’art. 1, commi 11 e 12 (a tutt’oggi ancora vigenti, salvo l’ampliamento del primo termine in 180 giorni a decorrere dall’entrata in vigore, il 14.07.2018, del D.L. 87/2018), della L. 92/2012, laddove:

  • al co. 11, viene disposto che:All'articolo 32, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183, sono apportate le seguenti modificazioni: a) la lettera a) è sostituita dalla seguente: «a) ... ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni. Laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato in centoventi giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni»; b) la lettera d) è abrogata.”.
  • al co. 12, per completezza, si dispone che: “Le disposizioni di cui al comma 3, lettera a), dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, come sostituita dal comma 11 del presente articolo, si applicano in relazione alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013.”.

Il co. 11, art. 1, L. 92/2012, alla stregua di quanto prima prevedeva il co. 3, lett. d), art. 32, L. 183/2010, espressamente esclude l’operatività del regime della decadenza all’ipotesi della reiterazione dei contratti a termine, anche frazionati tra di loro (art. 1, co. 43, L. 247/2007), oltre la durata massima tollerabile di 36 mesi, atteso che l’espressa dizione della norma impone il regime del doppio (o eventualmente triplo) termine di decadenza (impugnazione stragiudiziale e deposito della domanda giudiziaria) esclusivamente ai casi in cui “si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto” (Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).

Diversamente, la nullità di protezione avverso la reiterazione abusiva dei contratti a termine oltre la durata massima e tollerabile di 36 mesi afferisce, invece, non ad una nullità della clausola appositiva del termine apposto ai contratti (che, per ipotesi, potrebbero anche essere costituiti validamente), ma all’ipotesi in cui la successione degli stessi, nel momento in cui, sommati tra di loro, superano una certa data massima asseverano, ipso iure e con presunzione assoluta dell’ordinamento interno ed eurounitario, l’insussistenza delle ragioni di eccezionalità e temporaneità che dovrebbero sorreggere il modello negoziale temporale e, dunque, una fraudolenza della legge che disciplina il rapporto di lavoro a tempo indeterminato.    

Sicchè, poiché l’art. 28, co. 1, D.Lgs. 81/2015, farebbe riferimento esclusivamente all’art. 6. L. 604/1966 (“L'impugnazione del contratto a tempo determinato deve  avvenire, con le modalità previste dal primo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 ...”), le locuzioni utilizzate andrebbero intese, ed applicate, nel senso che si dovrebbe impugnare ogni singolo contratto a termine, indipendentemente dal vizio negoziale, e, dunque, tutti i contratti che concorrono alla violazione della durata massima secondo un regime decadenziale che si vorrebbe interpretare come generalizzato e non isolato alle singoli fattispecie di nullità del termine contrattuale.

Col che, volendosi, inevitabilmente, disapplicare per implicita abrogazione, frutto di una autoreferenziata interpretazione sistematica, la portata precettiva del co. 11, art. 1, L. 92/2012 sopra esaminato.  

Tant’è che risulta priva di pregio l’eventuale riferimento comparativo del co. 3 dell’art. 32 con il co. 4 del medesimo articolo della L. 183/2010, volendo, in via interpretativa, trarre una forzosa distinzione utile all’applicazione del regime decadenziale anche per il divieto di superamento della durata massima.

A ben vedere, non sussiste alcun effetto antinomico tra le due norme (co. 3 e co. 4), prevedendo, la prima, le disposizioni che entrano in vigore alla data del 24.11.2010 e la seconda, le disposizioni (sulle medesime fattispecie di cui agli artt. 1, 2 e 4 del D.Lgs. 368/2001) che vogliono porre uno “sbarramento temporale” alla rivendicazione dei contratti siglati prima del 24.11.2010, tant’è che il legislatore, uniformandosi al principio europeo di effettività delle tutele (cfr. su casi analoghi, CGUE sent. 19.09.2006 C-392/2004 e C-422/2004, punto 57; sent. 16.07.2009 C-69/2008; sent. 30.06.2011 C-262/2009, punto 55; sent. 18.10.2012 n. 603, punti da 23 a 25)  ed a quello interno del legittimo affidamento dei consociati sulle tutele previgenti alla riforma (cfr. Corte Cost. sent. n. 260/2015), ha introdotto, in sede di conversione del D.L. 225/2010 (cd. decreto milleproroghe), con la L. 10/2011, la disposizione che ne posterga l’entrata in vigore al 31.12.2011 (come espressamente asseverato dalla Cass. Sez. Unite sent. n. 4913/2016).

Al di là della interpretazione letterale della norma esaminata (co. 11 cit.), che appare tutt’oggi cogente (https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2012-06-28;92) e che contraddice gli assunti di una diversa ed inapplicabile interpretazione sistematica ed estensiva dell’art. 28 e/o dell’art. 39 del D.Lgs. 81/2015 (per divieto postone dall’art. 12 Preleggi, che regolamenta in maniera gerarchica l’uso dei canoni di interpretazione delle norme: sul punto, cfr., tra le varie, Cass. sentt. n. 5128/2001 e n. 3495/1996), che produrrebbe l’effetto di obliterare la vox iuris (art. 1, co. 11, L. 92/2012), ostano a tale avversa interpretazione altre due considerazioni egualmente dirimenti e concludenti all’esclusione del regime decadenziale, allorquando si faccia valere la violazione del superamento della durata massima ragionevole (Clausola 5) e tollerabile (art. 1344 c.c.).

 

  1. La “quarta via” è, invece, rappresentata dal cd. principio di effettività delle tutele giurisdizionali.

Ed invero, non sarebbe ipotizzabile una interpretazione estensiva o sistematica che consenta l’applicazione di tale regime decadenziale anche nel caso del divieto di superamento della durata massima di 24 mesi (sotto la vigenza del D.L. 87/2018 – L. 96/2018) o di 36 mesi (nel regime antecedente e oggi ancora per i lavoratori delle fondazioni lirico sinfoniche e dei docenti scolastici), perché tale interpretazione non sarebbe conforme al principio di effettività delle tutele giurisdizionali (codificato dal combinato disposto degli art. 6 CEDU, art. 6 TUE – richiamato dall’art. 151 TFUE quale fonte eteronoma dell’ordinamento europeo - e dell’art. 47 CDFUE) e contraria ad ogni logica (prima ancora che contraria ad ogni principio di diritto).

Diversamente opinando, cioè, non sarebbe possibile utilizzare la tutela in commento, atteso che il superamento della durata massima ragionevole e tollerabile di 36 mesi (pari a 1.081 giorni) o di 24 mesi (pari a 721 giorni) è un lasso temporale del tutto incompatibile con il regime impugnatorio e decadenziale previsto per le ipotesi (tassativamente) indicate: infatti, pur dilatando al massimo i termini disposti dal regime decadenziale (180 giorni per la impugnazione dalla scadenza del singolo contratto a termine + 180 dall’impugnazione dall’inoltro della impugnativa per il deposito della domanda giudiziaria + 80 giorni dallo spirare dal primo termine o dal duplice termine nel caso di promozione del tentativo facoltativo di conciliazione e dunque di proroga della tempestività della domanda giudiziaria), pari a 420 giorni ed a poco più di 14 mesi, non sarebbe mai esperibile dal lavoratore i diritti che conseguono al divieto di superamento della durata massima oltre una data certa e ragionevole (24/36 mesi).

Sotto tale profilo non può non rilevarsi per meridiana evidenza che una interpretazione ed applicazione estensiva e/o analogica dell’istituto della decadenza legale oltre i limiti tracciati dall’art. 1, co. 11, L. 92/2012, tale che, di fatto, porterebbe ad eludere l’applicabilità della tutela della durata massima, comprometterebbe irrimediabilmente una illegittimità derivante da una mera reiterazione nel tempo dei contratti a termine; e tanto sotto il profilo costituzionale, ai sensi dell’art. 24 ed art. 117 della Cost., quanto sotto il profilo euro-unitario, atteso che una tale compressione dell’azione comporterebbe di fatto una violazione della Clausola 5 della Direttiva 70/1999/CE e del principio di effettività delle tutele giurisdizionali (art. 6 C.E.D.U., art. 6 T.U.E. – trattato le cui norme sono reputate quali fonti eteronome dell’ordinamento europeo ai sensi dell’art. 151 T.F.U.E. -, ed art. 47 C.D.F.U.E.): vedasi, sul punto, Corte di giustizia, Grande Sezione, 25 ottobre 2017, C-106/16, Polbud, p. 27; Corte di Giustizia, 16 giugno 2015, Gauweiler e a., C-62/14, p. 15; Corte di giustizia, 05 luglio 2016, C-614/14, Ognyanov, p. 15; Corte di giustizia, 18 luglio 2013, C-136/12, p. 12.

Ma, sul medesimo punto, anche l’Ord. delle Sez. Un. della Cass. n. 19598 del 18.09.2020, p. 45, secondo cui “Secondo giurisprudenza costante, il giudice nazionale è tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, disapplicando, all'occorrenza, le disposizioni (e le prassi interpretative) nazionali contrastanti, «senza che ne debba chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale [seguono richiami di giurisprudenza]» (Corte di giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco, p. 49; tra le tante, sentenze 4 maggio 2006, C-23/03, C-52/03, C-133/03, C-337/03 e C-473/03, Michel Mulliez e a, p. 38; 19 gennaio 2010, C-555/07, Seda Ktictikdeveci, p. 54)”.

  1. L’ultima riflessione dirimente, la cd. “quinta via”, trova origine nella funzione antielusiva della tutela del divieto di superamento della durata massima – art. 1344 c.c.. Appare, sulla scorta di tutte le considerazioni che precedono, più che chiaro che la natura della tutela è proprio quella di evitare che possano essere costituiti una serie reiterata di contratti a termine che possano frodare la legge sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche se solo si osservino le dizioni delle norme coinvolte (art. 1, co. 40 e 43, lett. a, L. 247/2007, che ha all’uopo inserito, nell’art. 5 del D.Lgs. 368/2001, il co. 4-bis; l’art. 19, co. 2 del D.Lgs. 81/2015: “Qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo  indeterminato dalla data di tale superamento”; limite di durata massima poi ridotto a 24 mesi con l’introduzione del D.L. 87/2018), laddove esplicano il principio secondo cui al momento in cui si verifica tale superamento è direttamente lo stesso legislatore ha sanzionate tale reiterazione abusiva con la trasformazione a tempo indeterminato.

E va anche evidenziato, incidentalmente, come la semplice nomofilassi letterale della norma dovrebbe di per sé imporre l’insuscettibilità applicativa dell’istituto in commento: in breve, è lo stesso legislatore a prevedere, ipso iure, la trasformazione e/o conversione quale reazione dell’ordinamento al superamento della durata massima dei contratti, anche interrotti o frazionati tra di loro, laddove si superi, appunto, una durata massima ritenuta tollerabile.

Ed è proprio al superamento di quella soglia di tollerabilità che viene in evidenza l’elusione di quei principi di eccezionalità e temporaneità che devono sorreggere il ricorso alla contrattazione a termine.

La tutela del divieto di superamento della durata massima ragionevole (Clausola 5) e tollerabile (art. 5, co. 4-bis, D.Lgs. 368/2001 ed art. 19, co. 2, ult. disp., D.Lgs. 81/2015), in effetti, prescinde dalla validità o meno dei singoli contratti la cui durata massima, anche in maniera frazionata o interrotta, vanno a comporre; e non viene influenzata dai vizi genetici o cd. funzionali del negozio a termine.

Tale tutela costituisce, invero, una divieto espresso di fraudem legis che si viene a verificare laddove una serie reiterata di contratti a termine (anche e seppur legittimi in sé, perché rispettosi della ragione obbiettiva e del numero di proroghe o dei lassi temporali dei rinnovi) impegnano lo stesso lavoratore, nelle medesime mansioni e funzioni (nel senso di cui all’art. 2103 c.c. sia ante che post novella del 2015), in una serie di rapporti temporali che si connotano, nella loro durata complessiva, per il carattere di eccezione rispetto alla regola del lavoro a tempo indeterminato e secondo i crismi della eccezionalità e temporaneità della prestazione negoziale richiesta, oltre una durata massima ragionevole e tollerabile al punto tale da costituire un aggiramento sistemico delle norme sul modello principe del lavoro a tempo indeterminato, sancite dal legislatore europeo ed interno come norme imperative di diritto.

Le medesime osservazioni, e di egual tenore, sono state espresse a più riprese dalla S.C. sul lavoro a termine sottoposta al codice della navigazione, tra le quali le seguenti.

La Cass., infatti, con la sent. n. 62/2015, ha avuto modo di asseverare (cfr. capo 3.12 in poi) che: “Nondimeno, anche la presenza di una normativa astrattamente idonea a prevenire abusi non esclude che, in concreto, ricorra un esercizio della facoltà di assumere a tempo determinato tale da integrare frode alla legge sanzionabile ex art. 1344 c.c., ipotesi che per sua natura non può che essere esaminata caso per caso, con apprezzamento del numero dei contratti di lavoro a tempo determinato, dell'arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e di ogni altra circostanza fattuale emersa in atti, apprezzamento riservato al giudice di merito. In proposito si tenga presente che l'art. 1 cpv. cod. nav. non osta all'applicazione del generale principio civilistico previsto dall'art. 1344 c.c. (non esistendo nel codice della navigazione norme che diversamente regolino il fenomeno della frode alla legge) e che il disposto dell'art. 326 ult. co. cod. nav. - ... - di per sé non implica anche una statuizione reciproca che, al contrario, ammetta sempre e comunque, a prescindere da eventuali intenti fraudolenti, la legittimità della successione di contratti a termine purché separati da intervalli superiori ai sessanta giorni”.

Del pari tenore anche Cass. sentt. n. 11997/2018, laddove, al capo 17 in poi, si legge che:

Ciò non toglie che, pur ammessa, in linea di principio, la legittimità del termine apposto a contratti di arruolamento con la causale sopra ricordata e ribadita l'idoneità della disciplina dettata dal codice della navigazione a prevenire abusi, tuttavia non si può escludere che, in concreto, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia possibile porre in essere una condotta che integri una frode alla legge sanzionabile ai sensi dell'art. 1344 cod. civ.. [...] Ciò detto, all'accertamento dell'utilizzazione abusiva del contratto a tempo determinato si può addivenire attraverso una ricostruzione degli elementi allegati nel processo che, congiuntamente valutati, convergano nel far ritenere provato un intento fraudolento del datore di lavoro, il quale ripetutamente si sia avvalso di prestazioni di lavoro a termine. [...] Si tratta di una indagine demandata al giudice di merito, il quale dovrà desumere, con procedimento logico deduttivo, da elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l'arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e di ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti, l'uso deviato e fraudolento del contratto a termine (per una accurata ricostruzione del procedimento di accertamento della prova attraverso presunzioni si veda Cass. 13.05.2014 n. 5787).

Ed ancora, Cass. sent. n. 14828/2018, laddove, pagg. 8 e 9, si legge:

Ritiene il Collegio che la questione della compatibilità dell'art. 326 cod. nav. con la normativa comunitaria richiamata è stata, per quanto può rilevare nella presente decisione, già chiarita dalla precedente pronuncia della CGUE 3.7.2012 resa nelle cause C-362/13, C- 363/13 e C- 497/13, ove è stato dichiarato che: 1) l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, figurante quale allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che esso si applica a lavoratori occupati in qualità di marittimi con contratti di lavoro a tempo determinato su traghetti che effettuano un tragitto marittimo tra due porti situati nel medesimo stato membro; 2) le disposizioni dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato devono essere interpretate nel senso che esse non ostano a una normativa nazionale la quale prevede che i contratti di lavoro a tempo determinato debbono indicare la loro durata ma non il loro termine; 3) la clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale la quale prevede la trasformazione di contratti di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato unicamente nel caso in cui il lavoratore interessato sia stato occupato ininterrottamente in forza di contratti del genere dallo stesso datore di lavoro per una durata superiore a un anno, tenendo presente che il rapporto di lavoro va considerato ininterrotto quando i contratti di lavoro a tempo determinato sono separati da un intervallo inferiore o pari a 60 giorni, spettando, comunque, al giudice nazionale verificare se i presupposti per l'applicazione nonché l'effettiva attuazione della normativa costituiscano misura adeguata per prevenire e punire l'uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

A corollario finale di tale ricostruzione, non potrà, dunque, revocarsi in dubbio che l’azione tesa all’accertamento della frode alla legge, quale norma imperativa di ordine pubblico, sottratta alla disponibilità dei privati, non solo non è soggetta a prescrizione (essendo di per sé una nullità assoluta ex art. 1418 c.c., rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio), ma non può nemmeno essere compatibile con l’istituto della decadenza (v. artt. 1322, co. 2, 1344 e 1345 c.c.) per espressa volontà del legislatore e per la natura stessa delle norme di protezione che vi sono a corredo.

 

Somministrazione a termine – reiterazione abusiva – divieto superamento durata massima – fraudem legis art. 1344 c.c. – decadenza legale – espressività e tassatività della decadenza - divieto di interpretazione estensiva e analogica - principio di effettività delle tutele – interpretazione sistematica.  

Francesco Andretta, avvocato del foro di Napoli.