Luci e ombre del decreto-dignità

di Luigi Mariucci

Intanto è bene dire che “decreto-dignità” è un bel nome. Di certo migliore dell’americaneggiante “JobsAct” i cui esiti sono stati nefasti. Infatti la scelta cruciale sottesa a quell’intervento di legge, vale a dire la liberalizzazione dei licenziamenti, ha rotto consapevolmente e si direbbe persino dolosamente le ultime radici con ciò che restava, sul piano politico, della sinistra “sociale”. Questo ha significato infatti l’assunzione della posizione classica della destra liberista secondo la quale più sono facili i licenziamenti più cresce l’occupazione. I risultati catastrofici di quella scelta sono sotto gli occhi di tutti: siamo nelle mani di un governo giallo-verde sospeso tra vincoli ex contractu e derive destrorse.

“Decreto dignità” è perciò un bel titolo: alludere alla connessione tra lavoro e dignità ha infatti un indubbio carattere progressista. Poi naturalmente si tratta di valutare la coerenza tra parole e fatti. Osservando il testo da una posizione classica, appunto, di “sinistra” ci si poteva aspettare qualcosa di più e di meglio. Ad esempio l’introduzione di una disciplina decente dei licenziamenti illegittimi, di stampo europeo, in abrogazione della misera  monetizzazione del licenziamento illegittimo introdotto dal JobsAct, una regolamentazione compiuta del lavoro temporaneo, una razionalizzazione della pletora dei contratti precari.
Si è invece proposto qualcosa di molto più modesto: la riduzione da 36 a 24 mesi del limite di assunzione con contratti a tempo determinato, la reintroduzione dalla causale per il contratto a termine solo dopo 12 mesi dalla prima assunzione, la riduzione da 5 a 4 delle proroghe dei contratti a termine, un incremento delle indennità in caso di licenziamento illegittimo e persino un criticabile, per quanto limitato, ripristino dei buoni lavoro (cosiddetti voucher).

Nei confronti di queste modeste misure una “sinistra” laddove ancora esistesse avrebbe dovuto univocamente lamentarne l’inadeguatezza. E’ avvenuto invece qualcosa di veramente incredibile: il PD, usando persino le stesse parole di Forza Italia e di una Confindustria ormai con evidenza colpita da un deficit di rappresentatività e di lucidità strategica, ha lamentato che in questo modo si limitava la libertà d’impresa, si introducevano vincoli intollerabili alle assunzioni, si sarebbe ridotta l’occupazione, stimata addirittura dall’Inps in qualche decina di migliaia di posti di lavoro. Ciò che colpisce non è tanto e solo l’inconsistenza sul piano politico di tali obiezioni, ma proprio la loro intrinseca e inattendibile concettualità.

Se tali obiezioni fossero fondate si dovrebbe infatti dedurne che cosa buona per il mercato del lavoro e per l’occupazione sarebbe non ridurre da 36 a 24 mesi la reiterazione dei contratti a termine ma piuttosto portare quel limite da 36 a 48, ovvero abrogarlo del tutto, non ridurre da 5 a 4 le proroghe ma allungarle a 6-7 ovvero appunto abolire il limite, non introdurre una giustificazione causale delle assunzioni a termine dopo i 12 mesi ma consentire le assunzioni a termine senza alcun vincolo, non incrementare l’indennità i caso di licenziamento ingiustificato ma abolirla del tutto così lasciando mano libera alle imprese. Seguendo quella linea di pensiero in altri termini ogni limite alla libertà d’impresa e di mercato sarebbe sbagliato.

Questa reductio ad absurdum degli argomenti opposti dalla opposizione soi disant di sinistra al decreto-dignità dimostra a quale punto di catastrofe sul piano politico siamo arrivati. Questo tipo di opposizione non sarà in grado di proporre alcuna credibile alternativa di governo per un periodo di tempo incalcolabile. Finchè non si ricostituirà sul piano politico una credibile “sinistra sociale” nessun appello umanitario sarà in grado di contrastare la deriva in corso.
Vincerà inevitabilmente il sovranismo “di destra”.