Riflessioni e considerazioni operative sul c.d. salario minimo

di Umberto Carabelli
Professore di diritto del lavoro
Articolo pubblicato in contemporanea con Volere la Luna.

Dietro la ripetitiva e alquanto stantia discussione di questi giorni circa l’opportunità o meno di un’iniziativa legislativa in materia di salario minimo, c’è qualcosa di più dell’ormai proverbiale immobilismo decisionale governativo. C’è un coacervo di interessi politici ed economici intenti a resistere all’approvazione di una legge in materia, poiché stanno vivendo con ansia e preoccupazione la possibilità che si possa giungere, per la prima volta nella storia del nostro Paese, a fissare una fondamentale normativa legale di equità, per regolare lo scambio tra il lavoro e la sua remunerazione, ormai divenuto drammaticamente svantaggioso per tanti lavoratori. Si tratta di un fronte assai vasto, che si avvale di discutibili argomenti economici, solitamente di incerti dati statistici, talvolta di ragionamenti che arrivano a mistificare la realtà normativa, e fanno balenare rischi inesistenti, o comunque indimostrabili. Il tutto, con il semplice obiettivo di lanciare ancora una volta la palla sugli spalti.

Per il vero anche le organizzazioni confederali più rappresentative del sindacato appaiono preoccupate, in quanto temono di veder messo in pericolo quanto conquistato in tanti anni di lotte sindacali: il loro ruolo fondamentale di riequilibrio negoziale della disparità di mercato dei lavoratori (nel quale il singolo è troppo solo: on the labour side power is collective power…), nonché l’imponente serbatoio di contratti collettivi  che, dal dopoguerra ad oggi, essi sono riusciti a stipulare per difendere gli interessi del lavoro dei propri rappresentati. Come dirò più avanti, a me non pare che, salvo che per un paio di questioni, il disegno di legge che assai probabilmente sarà oggetto di discussione parlamentare – sempre che le complesse vicende politiche in atto lo consentano – debba preoccupare particolarmente i sindacati confederali, visto che esso comunque riconosce stabilmente la centralità dei contratti collettivi da essi stipulati ai fini della definizione della retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost. Anche se tale giudizio potrà essere meglio dato soltanto a seguito di un’analisi pacata e puntuale del medesimo disegno di legge, che prescinda da battute generiche, inutilmente provocatorie, come quelle che si sprecano in questi giorni nel dibattito politico.

Desidero intanto chiarire subito che condivido in pieno l’opinione di chi dice che, piuttosto che una legge sull’art. 36 Cost., sarebbe meglio che il Parlamento approvasse una legge attuativa della seconda parte dell’articolo 39 Cost., in modo che fosse assicurata a tutti i lavoratori la copertura dell’intero contenuto economico-normativo dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Ma ritengo, per contro, che sbagli chi, di fronte all’attuale impossibilità di vedere approvata una siffatta normativa, sostiene che, allora, è meglio non farne nulla, tanto una larga maggioranza di imprese di fatto applica già ai propri dipendenti i contratti collettivi, mentre sarebbe addirittura dannoso per la stessa contrattazione collettiva una ‘legge che si sostituisse ad essa’ nella fissazione di un ‘salario minimo’ inderogabile dalle parti.

È davvero molto semplice, quasi ovvio, rispondere a quest’ultima affermazione con la semplice considerazione che tutto dipende da come si fa una legge sul salario minimo, cioè se essa risulti rispettosa, o addirittura sostenga, l’essenziale e tipica funzione del sindacato di regolare tramite contrattazione il valore di mercato del lavoro. Quanto al resto, può altrettanto agevolmente affermarsi che non può certo far male alla società del lavoro un’estensione a tutti i lavoratori quanto meno della parte economica dei contratti collettivi, poiché  in tal modo si eliminano le ‘residue’ sacche  di concorrenza sleale fondata sui bassi salari. La previsione legale di un salario minimo risolverebbe d’altronde in radice le profonde incertezze della giurisprudenza che applica anche ai datori di lavoro non iscritti alle associazioni stipulanti i trattamenti economici contrattuali, la quale ha ormai sviluppato troppi limiti e ridimensionamenti (differenziazioni territoriali e costo della vita, composizione del valore minimo, rilevanza del nucleo familiare del lavoratore, etc.).

Al momento, in Parlamento ci sono vari disegni di legge, tra cui due (quello del M5S e quello del PD) hanno un aspetto fondamentale in comune, costituito dal riconoscimento del ruolo centrale dei contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi come strumento per la fissazione del salario minimo. L’analogia tra i due testi, peraltro, si ferma qua. Infatti, il disegno del PD individua come salario minimo il trattamento minimo tabellare dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, astenendosi dall’individuare direttamente un minimo numerico comunque inderogabile. Il disegno di legge del M5S (secondo il testo a me pervenuto, circolante più di recente), rinvia invece al trattamento economico complessivo – cioè il trattamento inclusivo non solo delle c.d. paghe minime tabellari, ma anche delle altre componenti contrattuali della retribuzione – previsto dal contratto collettivo nazionale stipulato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, in vigore per il settore in cui opera l’impresa,  stabilendo poi, con una sorta di norma di chiusura, che i contratti collettivi stessi non possano mai fissare, per qualsivoglia prestazione di lavoro, un trattamento economico minimo orario inferiore ai 9 euro lordi.

Prescindendo da qualsivoglia ragionamento di taglio politico, che non intendo sviluppare in questa sede, questo secondo disegno (S. n. 658, p.f. Catalfo, M5S) costituisce, di fatto, la base su cui si sta sviluppando la discussione politica e governativa; ad oggi, pertanto, vale la pena concentrarsi su di esso, tentando di evidenziarne, da un punto di vista tecnico-regolativo, gli snodi principali, insieme con qualche considerazione critica riguardante alcuni profili di particolare importanza per i sindacati confederali (i soggetti che, dal punto di vista degli effetti di un siffatto intervento legislativo, potrebbero maggiormente temere per la lesione di quelle prerogative ed interessi di cui si è detto più sopra).

Preliminarmente, si deve segnalare che, per come è congegnato, il disegno di legge n. 658 definisce in realtà non un salario minimo, bensì una pluralità di salari minimi, differenziati in ragione sia delle retribuzioni previste dai vari livelli salariali del contratto, sia della composizione del trattamento economico complessivo fissato dai contratti collettivi nei vari settori produttivi. Il disegno prevede, inoltre, che in caso di più contratti collettivi applicabili all’impresa, prevalga quello stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi, rinviando per la misurazione della rappresentatività agli ottimi schemi autonomamente elaborati nel TU del 2014 dalle parti sociali.  Si tratta di una buona norma, dettata per sgomberare il campo dai tanti contratti pirata ad oggi esistenti, almeno ai fini della previsione del trattamento economico complessivo; anche se si deve sottolineare che l’applicazione del TU è condizionata dalla stipula di convenzioni con l’INPS (che, ovviamente, i sindacati confederali ritengono determinanti), tuttora non concluse da quest’ultimo, e che il disegno di legge stabilisce che «nelle more dell’applicazione dei predetti criteri si assume a riferimento il contratto collettivo nazionale in vigore per il settore nel quale si eseguono le prestazioni di lavoro, come individuato ai sensi dell’articolo 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549».

Ciò detto, la prima considerazione giuridica da effettuare è che l’art. 36 Cost. impone allo Stato di garantire che la retribuzione sia proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, nonché sufficiente ad assicurare ai lavoratori e alle loro famiglie un’esistenza libera e dignitosa. Se ciò è vero, si può indubbiamente concepire una legge che, intendendo dare attuazione a tale articolo, si muova, su due piani. Da un lato, essa potrebbe identificare il salario minimo rinviando in generale ai trattamenti economici complessivi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi (in quanto considerati storicamente garanti del rispetto del parametro della proporzionalità al valore di mercato delle prestazioni, oltre che di quello della sufficienza). Ciò in conformità, d’altronde, con quanto stabilito dalla nota sentenza n. 51/2015 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato adeguata all’art. 36 Cost., e non in contrasto con l’art. 39 Cost., la norma che impone alle cooperative la corresponsione ai soci lavoratori di trattamenti economici complessivi minimi non inferiori a quelli dei contratti stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale. Dall’altro lato, al fine di garantire che il vincolo imposto dall’art. 36 Cost., soprattutto quello della sufficienza, sia rispettato fino in fondo anche dall’autonomia collettiva, la legge stessa potrebbe ben aggiungere che il trattamento economico complessivo contrattuale da valere per tutti i lavoratori del settore non possa comunque essere inferiore ad una somma predeterminata (si consideri che una previsione di questo tipo sarebbe ammissibile, in teoria, finanche qualora si fosse in presenza di contratti collettivi stipulati in conseguenza dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost., visto che l’art. 36 Cost. vive di anima propria…).  

Orbene, nell’originaria formulazione del disegno di legge n. 658, era previsto proprio così, nel senso che, l’art. 2, co. 1, dopo aver rinviato al trattamento economico complessivo previsto dai contratti stipulati da sindacati più rappresentativi sul piano nazionale, prevedeva che esso non potesse comunque essere inferiore al limite di «9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali». Invece, nella formulazione attuale, il disegno di legge riferisce il limite minimo dei 9 euro lordi non più al trattamento economico complessivo, ma, come si è detto più sopra, al trattamento minimo orario, che evidentemente di quello complessivo è l’elemento base. Questo spostamento, solo apparentemente innocuo,  non è affatto di scarso peso.

A questo riguardo, credo sia ampiamente condivisibile l’affermazione secondo cui, avendo assunto la decisione di sancire un limite numerico di base, al di sotto del quale non possa andare nessun trattamento economico complessivo previsto dai contratti collettivi, il legislatore dovrebbe stabilire con molta oculatezza tale valore, trovando un punto di equilibrio che, assicurando l’effettività della funzione di garanzia ultima che intende assolvere, non alteri il difficile equilibrio raggiunto dalle parti collettive nei vari settori economici. Ebbene, stando a dati statistici circolanti, più o meno uniformi tra loro, il valore di 9 euro lordi, ove previsto – come era nell’originale formulazione – quale limite minimo per il trattamento economico complessivo, sarebbe inferiore alla quasi totalità dei trattamenti economici complessivi previsti dagli attuali contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi, i quali dunque vedrebbero confermata in pieno la loro sostanziale ‘autorità’ regolativa. Al contrario, esso risulta squilibrato ove riferito al trattamento minimo orario, visto che in vari settori per alcuni lavoratori si sarebbe al di sotto di tale limite: le relative previsioni sarebbero dunque sostituite ex lege dal minimo legale, con la conseguenza di un incremento ulteriore anche del trattamento economico complessivo, alcune delle cui voci sarebbero incise dalla modifica. Non è mia intenzione spingermi in questa sede a ragionare su scelte di valenza politica, ma certo credo meriti di essere segnalato come risulti di per sé del tutto incongrua la trasposizione automatica  del medesimo valore di 9 euro lordi dal trattamento complessivo a quello orario minimo, effettuata nell’ultima versione del disegno di legge, posto che da essa derivano conseguenze di calcolo assai rilevanti. Da un punto di vista sistematico, inoltre, visto che il ‘salario minimo’ ai sensi dell’art. 36 Cost. viene costruito attraverso il rinvio al trattamento economico complessivo contrattuale, sembrerebbe più logico che anche la fissazione di un minimo legale numerico – ai predetti fini di garanzia aggiuntiva – fosse riferita direttamente ad esso. Insomma, a ben vedere, quanto previsto nel testo originario del disegno di legge n. 658 era più coerente col sistema costruito nonché più ragionevole rispetto alle scelte dell’autonomia collettiva, e quindi avrebbe probabilmente preoccupato meno i sindacati confederali, comunque notoriamente restii alla previsione di un valore numerico.

Se quanto detto è vero, occorre sottolineare con forza quello che appare essere l’aspetto più rilevante della disciplina prevista dal disegno di legge, spesso frainteso o travisato nel dibattito in corso. Esso sta nel fatto che a nessuna impresa sarebbe consentito – come avviene invece attualmente (caso FIAT docet!) – di ‘sganciarsi’ dal contratto collettivo cui volontariamente si sia fino ad oggi sottoposta, al fine precipuo di restare vincolata soltanto dal valore limite del trattamento economico minimo orario legale (i 9 euro lordi previsti nell’ultima versione del disegno). Infatti, è vero che l’impresa, in caso di dimissioni dall’associazione stipulante e/o di disdetta, non sarebbe più tenuta al rispetto del contratto collettivo fino ad allora applicato; essa, tuttavia, da quel momento in poi, sarebbe obbligata ex lege al rispetto dei trattamenti economici complessivi previsti per i vari livelli salariali del contratto stipulato dai sindacati (comparativamente) più rappresentativi del settore di riferimento, in quanto tali trattamenti sarebbero sempre e comunque vincolanti per tutte le imprese in esso operanti, identificandosi con il salario minimo legale.

L’appena descritta sottoposizione dell’impresa al trattamento economico complessivo contrattuale opererebbe, per come è stato costruito il meccanismo, anche indipendentemente dalla sua esplicita previsione per legge; il disegno di legge n. 658, peraltro, opportunamente ne conferma l’esistenza (art. 4, co. 1), onde evitare ogni dubbio. Di vera e propria ultrattività si può invece parlare rispetto a quanto previsto per il caso di scadenza del contratto collettivo applicabile: si prevede, infatti, che il vincolo di rispettare i trattamenti economici complessivi del contratto di riferimento operi per le imprese fino al rinnovo del contratto stesso (ancora art. 4, co.1). Il disegno di legge stabilisce, poi, che, in entrambi i casi appena indicati (che di fatto potrebbero anche essere conseguenti l’uno all’altro), gli importi del trattamento economico complessivo contrattuale siano «in­crementati annualmente sulla base delle va­riazioni dell’indice dei prezzi al consumo ar­monizzato per i Paesi dell’Unione europea (IPCA), al netto dei valori energetici, rile­vato nell’anno precedente» (art. 4, co. 2).

Si tratta di una norma la cui funzione rispetto al primo caso non si comprende bene: una volta che si sia stabilita l’applicazione all’impresa ‘in fuga’ dal proprio sistema contrattuale della regola del salario minimo legale (cioè del trattamento economico complessivo del contratto collettivo del settore cui appartiene), non si spiega poi questo incremento annuale automatico. Tale impresa – al pari, ad esempio, di tutte quelle che, non facendo parte di un sistema contrattuale, siano state subito assoggettate, dal momento dell’entrata in vigore della nuova legge, alla predetta regola – resterebbe vincolata al trattamento economico complessivo del contratto settoriale di riferimento con tutte le sue eventuali disposizioni di evoluzione dinamica, ivi compreso il recupero annuale dell’inflazione, ove mai previsto, fino alla scadenza naturale del contratto stesso.

Anche rispetto al secondo caso (appunto, scadenza naturale del contratto), rispetto al quale è più comprensibile una previsione sul recupero dell’inflazione, la norma solleva qualche problema interpretativo, in quanto non si comprende bene cosa succederà dal momento in cui subentri il nuovo contratto. Sempre riguardo a questo secondo caso, va inoltre segnalato che l’automatismo del recupero dell’intera inflazione, in certe fasi storiche, potrebbe incidere sul processo negoziale di rinnovo, onde mi chiedo se non sarebbe meglio rinviare a questi fini interamente allo stesso meccanismo di vacanza contrattuale stabilito dagli accordi confederali vigenti.

Infine, qualche osservazione relativa ad alcuni ulteriori aspetti problematici del disegno di legge n. 658. In primo luogo, va segnalata un’incertezza interpretativa derivante dalla formulazione dell’art. 2, co. 1, il quale, dopo aver fatto riferimento, ai fini dell’individuazione del salario minimo, ai trattamenti economici complessivi dei contratti stipulati dai sindacati più rappresentativi, «in vigore per il settore in cui opera l’impresa», aggiunge poi, con qualche ambiguità, un ulteriore criterio selettivo, mediante l’espressione «il cui am­bito di applicazione sia maggiormente con­nesso e obiettivamente vicino in senso qua­litativo, all’attività svolta dai lavoratori in maniera prevalente». Orbene, la norma parrebbe stabilire (il periodo ipotetico è d’obbligo) che, nel caso in cui, in ragione dell’attività produttiva a molteplici facce svolta da un’impresa, vi siano contratti collettivi di più settori – ovviamente tutti stipulati da sindacati (comparativamente) più rappresentativi – cui potrebbe farsi riferimento, deve applicarsi a ciascun lavoratore il contratto connesso all’attività da lui svolta in maniera prevalente. In conseguenza di ciò ne deriverebbe, che, pur essendo tutti i lavoratori dipendenti dalla medesima impresa, a ciascuno di essi potrebbe applicarsi ex lege un contratto differente. Questo tipo di soluzione mi risulta già rinvenibile in varie realtà produttive, e deriva da una precisa scelta dell’autonomia collettiva, la quale potrebbe anche decidere diversamente, ed applicare a tutti i lavoratori lo stesso contratto collettivo, normalmente quello connesso all’attività prevalente svolta, questa volta, dall’impresa. In questo caso, peraltro, trattandosi di salario minimo legale, è comprensibile che sia la legge ad effettuare la scelta di quale contratto collettivo sia applicabile ai fini del trattamento economico complessivo.

Nel disegno di legge, almeno nell’ultima versione  a mia disposizione, risulta, poi, essere stata eliminata una previsione riguardante eventuali settori in cui manchi del tutto un contratto collettivo. Per il vero, si tratta di una situazione che, secondo i sindacati confederali, sarebbe addirittura impossibile da rinvenire, data la grande ampiezza della attuale rete di contratti collettivi. Pur tuttavia, al fine di evitare ogni rischio, sarebbe forse comunque opportuno prevedere una disposizione al riguardo, stabilendo che, ove mai si verificasse tale ipotesi, l’individuazione del contratto applicabile, ai fini del trattamento economico complessivo legale, sia affidata al confronto delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e, in mancanza di accordo entro un certo termine, ad una commissione paritetica istituita presso il ministero del lavoro, cui affidare una mera valutazione di maggiore affinità. Nessuno spazio, invece, potrebbe mai avere, come talora fatto strumentalmente balenare, l’applicazione diretta e universale del trattamento minimo orario legale: una simile soluzione confliggerebbe con l’intero impianto del disegno di legge (che concepisce tale trattamento – i 9 euro lordi – soltanto come un limite inferiore riguardante i contratti collettivi) e si esporrebbe ad un evidente contrasto con l’art. 3, poiché ai lavoratori interessati verrebbe riservato, in modo del tutto irragionevole, un trattamento difforme da tutti gli altri.

Due ultime disposizioni sono ancora da segnalare. La prima è quella contenuta nell’art. 2, co. 2, secondo la quale le previsioni sul salario minimo «si ap­plicano anche ai rapporti di collaborazione di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ad eccezione di quelli previsti alle lettere b), c) e d) del comma 2 del medesimo articolo». Si tratta delle c.d. collaborazioni ‘etero-organizzate’, le quali già oggi sono soggette, per legge, alle disposizioni dettate per il lavoro subordinato, salvo nei casi del comma 2. La previsione sembra, pertanto, un po’ ultronea, ma, come si suole dire, melius abundare quam deficere. La seconda disposizione di particolare interesse è invece quella prevista dall’art. 4-quater, la quale introduce un forte sistema di repressione delle condotte elusive, fondato su un’azione processuale sindacale ispirata all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.

Questi gli aspetti  del disegno di legge del M5S che paiono più rilevanti e alcune considerazioni critiche da essi sollevate. Alle quali si deve aggiungere, a mio avviso, l’inopportunità di una previsione, quella dell’art.4-bis, la quale prevede l’istituzione di una commissione per l’adeguamento periodico del trattamento economico minimo orario legale (i 9 euro lordi). Di una siffatta commissione non se ne comprende affatto la necessità, visto che si potrebbe prevedere un meccanismo automatico ex lege, come quello sopra ricordato (art. 4, co. 2): in fin dei conti si tratta semplicemente di recuperare l’inflazione.

Alla luce dell’analisi che precede, io credo si possa concludere affermando che i meccanismi delineati nel disegno di legge in questione siano sostanzialmente rispettosi dell’autonomia collettiva e conformi alla sentenza n. 51/2015 della Corte costituzionale. Tali meccanismi, inoltre, per come costruiti, non sembrano affatto incentivare fughe dal sistema di contrattazione volontaria attualmente in vigore: il regime legale previsto dal disegno di legge, come si è visto, lo impedirebbe. Infine, si può ribadire quanto già accennato in apertura in relazione al fatto che un salario legale minimo eviterebbe le incertezze della giurisprudenza sull’art. 36 Cost.  Insomma, l’assetto normativo al momento proposto sembra mirare effettivamente a raggiungere l'obiettivo di rendere il mercato del lavoro italiano più equilibrato, senza ‘depredare’, ma anzi riconoscendo ancora la primazia della funzione salariale dell’autonomia sindacale. Probabilmente, con qualche correttivo il disegno potrebbe migliorare, e forse – ma la questione è tutt’altro che certa, in quanto incisa da tante variabili – essere perfino più accettabile per i sindacati confederali; sempre che il dibattito parlamentare non ne stravolga il contenuto.