PROCESSO AL JOBS ACT

di Enzo Martino
Articolo pubblicato in contemporanea con Volere la Luna.

Il decreto legislativo n. 23 del 2015, che ha introdotto nel nostro ordinamento il cosiddetto contratto “ a tutele crescenti”, è destinato nuovamente a finire sotto le lenti delle Supreme Corti per i suoi evidenti elementi di contrasto non solo con la nostra Costituzione, ma anche con il Diritto Eurounitario.
Infatti la Corte d'Appello di Napoli, con due separate ordinanze del 18 settembre 2019, emanate nel corso del medesimo procedimento, ha operato un doppio rinvio pregiudiziale alla Corte Costituzionale Italiana ed alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di alcune norme del “Jobs Act” in materia di licenziamenti collettivi.
Del resto, già il Tribunale di Milano, con ordinanza del 5 agosto 2018, aveva operato un rinvio pregiudiziale di impostazione analoga, sia pure alla sola Corte di Giustizia Europea.

Altra e diversa questione di costituzionalità è stata invece sollevata dal Tribunale di Bari, con ordinanza del 18 aprile 2018, a proposito dei licenziamenti illegittimi per vizio di forma, i quali sono sanzionati con un'indennizzo pari alla metà di quelli illegittimi nel merito.

Tra qualche settimana, infine, dovrebbe essere resa pubblica la decisione del Comitato sociale Europeo su un ricorso con il quale la CGIL ha denunciato l'inadeguatezza della normativa sui licenziamenti dal punto di vista del rispetto della Carta sociale europea.
Prima di commentare questo quadro in continua ebollizione, è opportuno riassumere brevemente la situazione normativa attuale per fare ben comprendere l'oggetto del contendere.
Com'è noto, il contratto “a tutele crescenti”, misura centrale del Jobs Act e della politica del lavoro del Governo presieduto da Matteo Renzi (il quale peraltro continua imperterrito a vantarne la bontà), non introduce affatto una nuova tipologia contrattuale, bensì semplicemente si limita a depotenziare pesantemente le tutele accordate ai dipendenti in caso di  licenziamento illegittimo, introducendo un sistema sanzionatorio meramente indennitario applicabile a tutti gli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015.

L'art. 18 dello Statuto dei lavoratori non è stato dunque abrogato, ma è stato condannato ad una morte lenta, destinata a realizzarsi progressivamente man mano che vengono instaurati nuovi rapporti di lavoro, per i quali la tutela reale (cioè la reintegrazione nel proprio posto illegittimamente sottratto) non rappresenta più la regola, bensì viene assicurata solo in casi del tutto marginali (licenziamento discriminatorio, difficilissimo da provare; licenziamento orale; licenziamento disciplinare per addebito del tutto privo di fondamento).
Per i nuovi assunti, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal Giudice, il rapporto di lavoro si considera infatti comunque risolto, ed al lavoratore compete soltanto un indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a due mensilità per anno di servizio, calcolata tra un minimo di quattro ed un massimo di ventiquattro mensilità (minimo e massimo poi aumentati da sei a trentasei mesi dal cosiddetto “Decreto dignità” dell'agosto 2018).

Così, nello schema della controriforma renziana, ad un lavoratore licenziato per motivazioni economiche del tutto inconsistenti, ovvero per un addebito disciplinare anche di lievissima entità, spetta non la reintegra, non l'integrale ristoro dei danni, ma solo una modesta indennità risarcitoria di valore predeterminato (per fare un esempio, otto mensilità nel caso di lavoratore con quattro anni di anzianità).
Il trionfo dunque della teoria del “firing cost”, importata da oltre oceano, secondo la quale l'imprenditore deve conoscere in anticipo quanto gli costa liberarsi di un dipendente a prescindere dalla liceità del suo atto.
Il tutto giustificato, con grande spiegamento di forze sul piano mediatico, da un preteso benefico effetto sull'occupazione, od almeno sulla qualità di essa, che sarebbe conseguito dalla maggiore libertà di licenziare: posizione ideologica, questa, non solo del tutto priva di basi scientifiche, ma anche smentita clamorosamente dai dati del mercato del lavoro degli anni successivi, che hanno viceversa certificato l'opposto, cioè un clamoroso aumento – anzi una vera e propria esplosione, non appena cessato l'effetto dopante degli incentivi economici previsti a sostegno dei contratti a tempo indeterminato- delle assunzioni precarie, favorite dalla liberalizzazione del contratto a tempo determinato operata dal decreto Poletti del 2014.

Un primo, anche se insufficiente, colpo al nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi è stato però inferto dalla Corte Costituzionale con la notissima sentenza n. 194 del 2018 (che ho già avuto modo di commentare quando si era ancora in attesa del deposito della motivazione, anche se già se ne conosceva l'esito: si veda il seguente link: https://volerelaluna.it/lavoro-2/2018/09/30/per-la-corte-costituzionale-il-lavoro-non-e-solo-una-merce/).
Con tale decisione l’art.3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 è stato ritenuto illegittimo nella parte che predetermina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Ma la Corte costituzionale purtroppo non si è spinta sino al punto di rimuovere l'evidente disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti, in quanto ha ritenuto che l'applicazione, ratione temporis, di due discipline, pur così fortemente differenziate, non contrasti di per sé con il principio costituzionale di eguaglianza.
Così, l'impianto del Jobs Act, pur temperato dalla maggior discrezionalità attribuita al giudice nella determinazione dell'indennità economica, è rimasto sostanzialmente inalterato, e la reintegrazione nel posto di lavoro non è ritornata al centro del sistema, come sarebbe invece necessario per garantire l'effettività di tutto l'universo dei diritti garantiti ai lavoratori.
Ed infatti, nella Corti di merito, assai poco è cambiato dopo la sentenza della Corte, e soprattutto assai poco è cambiato nella prassi, poiché molti lavoratori rinunziano ad impugnare – ovvero si accontentano di risarcimenti assai modesti, anche intimoriti dalla possibile condanna alle spese in caso di soccombenza - sapendo che non possono riottenere il bene primario loro sottratto, e cioè il posto di lavoro.

Quello che non è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale italiana potrebbe però esserlo da una Corte Europea.
E non a caso la Corte d'appello di Napoli, come pure aveva fatto il mese prima il Tribunale di Milano, prende le mosse da un caso di licenziamento collettivo, dove la possibile coesistenza di due regimi sanzionatori così differenti nell'ambito di una stessa procedura di licenziamento, provoca una disparità di trattamento ictu oculi ancor più irragionevole ed iniqua, in una materia che,  diversamente da quella relativa ai licenziamenti individuali, è direttamente riconducibile ad una specifica direttiva della Comunità (la 98/59/CE) e quindi può essere sottoposta al sindacato della Corte Europea.

Quindi i Giudici di merito chiedono alla Corte di Giustizia se sia compatibile con il diritto dell'Unione una normativa sui licenziamenti collettivi, come quella italiana, che faccia coesistere due livelli di tutela così differenziati quanto ad effettività, efficacia, adeguatezza e deterrenza.
E la Corte d'Appello di Napoli si spinge oltre, perché ripropone nel contempo la medesima questione anche alla Corte Costituzionale italiana, in ragione delle peculiari caratteristiche della normativa sui licenziamenti collettivi, operando così per la prima volta, almeno in Italia, un “doppio rinvio” alla Alte Corti nello stesso procedimento giudiziario.

Anche se limitate ai recessi collettivi, eventuali decisioni di accoglimento potrebbero avere effetti sistemici assai importanti, riaprendo del tutto i giochi, che fino a poco tempo fa sembravano chiusi, sull'intera materia dei licenziamenti.
Come potrebbe riaprire i giochi l'imminente pubblicazione della decisione con la quale il Comitato sociale valuterà la compatibilità della disciplina del contratto a tutele crescenti con l'art. 24 della Carta sociale europea, in particolare sotto il profilo del mancato ristoro del danno integrale patito dal lavoratore illegittimamente licenziato (la questione riguarda soprattutto il tetto massimo di risarcimento).
Pur non avendo le decisioni del Comitato, contrariamente a quelle della Corte di Giustizia, un effetto diretto nel nostro ordinamento, la loro importanza dal punto di vista politico è indiscutibile: in caso di inosservanza, la Commissione Europea potrebbe infatti aprire una procedura di infrazione contro l'Italia e quindi Governo e Parlamento dovranno necessariamente intervenire, ristabilendo un quadro di tutele effettive ed adeguate in caso di licenziamento illegittimo.