da Giobbe a Koolhas: il processo del lavoro salvato dagli irragionevoli

di Carlo Guglielmi
Articolo pubblicato su rivista LAVOROVIVO - Appunti di diritto applicato. 

da Giobbe a Koolhas: il processo del lavoro salvato dagli irragionevoli


1.
In base ai numeri forniti dal Ministero della Giustizia sulle controversie di lavoro tra il 2014 e il 2020 si rileva una contrazione costante anno su anno che ha portato ad una riduzione delle cause del 32% (e se prendessimo il 2010 – che è la data di avvio del trend di questa discesa – e giungessimo ad oggi, il differenziale sarebbe ancora più alto, e di molto). Il pubblico impiego è un po’ meno toccato, le cause per licenziamento nel settore privato si sono ridotte del 29%, mentre quelle sul lavoro precario del 55%. Siamo di fronte ad una vera e propria fuga dalla giurisdizione, già quasi tutte le Sezioni specializzate nella materia del lavoro sono state ridotte di organico e molte altre stanno per esserlo in modo radicale, soprattutto nelle Corti di Appello. Gli interventi legislativi che ci hanno portato a questo punto sono innumerevoli: il cd “collegato lavoro” del 2010, la nuova disciplina delle spese legali fatta dal Governo Berlusconi nel 2009 ed inasprita dal Governo Renzi nel 2016, la cancellazione dopo cinquant’anni della gratuità del processo del lavoro nel 2011, e poi la riforma Fornero nel 2012, e poi la liberalizzazione dei contratti a termine fatta da Poletti nel 2014, e poi il Jobs act nel 2015, e poi siamo in attesa di cosa ci proporrà la Presidente dei Consulenti del Lavoro promossa nel frattempo a capo del Ministero. Ma ciò che più rileva è che ad essere veramente esplosa è la quantità di rigetti.

Ciò che progressivamente sconsiglia i lavoratori ed i loro avvocati a rivolgersi alla magistratura non sono tanto e solo le nuove leggi ma la valanga, ad ogni giro sempre più minacciosa, di cause perse. Ed infatti, come già anni fa diceva Achille Battaglia, “per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi poco giova l’esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito”.

2.
Si dice “perdere una causa”. Niente di strano, perdere è un verbo polisemico che vuol dire anche “avere la peggio, riuscire inferiore rispetto all’avversario”. E però per il vocabolario Treccani è una definizione che giunge undicesima, mentre le precedenti dieci ruotano sostanzialmente tutte attorno ad un unico significato: “cessare di possedere qualche cosa, restarne privo” anche nella variante di “non avere più la presenza o la compagnia di una persona”. Insomma si può perdere una causa come una partita di pallone, oppure si può perdere una causa come si smarrisce qualcosa di prezioso o non si ha più la compagnia e la presenza di un amico o di un padre. Ed è un bivio che affronteremo con l’aiuto dell’etimologia di perdere: composta dal verbo latino “dare” (che ha lasciato la “a” in favore della “e” mantenendo lo stesso significato) e dalla particella “per” che significa “al di là, oltre”, insomma perdere è un dare al di là.

3.
Ma torniamo allora alla fuga dalla Giurisdizione per rilevare come non sia un fenomeno inedito, tutt’altro. Il più grande storico del diritto del lavoro italiano, Umberto Romagnoli, nel suo bellissimo libro “Il Lavoro in Italia” ci spiega come con l’industrializzazione della fine dell’ottocento iniziarono le cause di lavoro, ma a celebrarle (e a creare un primo corredo di diritti) non furono i Giudici, ma i cosiddetti “probiviri industriali”, che erano membri popolari di collegi arbitrali scelti dalle parti sociali. Perché i lavoratori non si rivolgevano alla Magistratura? A questa domanda Romagnoli risponde con le parole del più grande giurista dei tempi, Chiovenda, che spiega in un suo scritto del 1930 come ciò sia successo “a causa della sfiducia della classe operaia nei Giudici e nei giudizi borghesi”.
Ma poi nel corso del novecento questa sfiducia era venuta meno, grazie innanzitutto a quei grandi giuristi tedeschi che inventarono il “diritto del lavoro” per come lo abbiamo poi conosciuto nel XX secolo e lo introdussero nella Costituzione di Weimar. Da lì – passando per la tragedia della seconda guerra mondiale – quel diritto del lavoro è giunto nelle regioni “alpine” della nostra Carta Costituzionale, arrampicandosi sino a quel comma 1 dell’art 1 che recita “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, inaugurando così una stagione di oggettiva alleanza tra le lotte dei lavoratori e la giurisprudenza del lavoro.

4.
Ma che vuol dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? E perché l’alleanza tra lavoro, diritti e magistratura ad un certo punto si è rotta ribaltandosi nel suo opposto? Per rispondere si vuole qui provare a costruire un’analogia tra due campi del sapere, e per farlo si utilizza l’escamotage di partire dalle similitudini che intercorrono tra i relativi fondatori, entrambi di lingua tedesca, di religione ebraica e quasi coetanei. E cioè Hugo Sinzheimer, a cui affidiamo il ruolo di fondatore del diritto del lavoro moderno, e Sigmund Freud, l’indiscusso fondatore della psicanalisi. Partendo proprio da quest’ultimo, ricordiamo il suo famoso motto per cui “Wo es war soll Ich werden”, tradotto da Cesare Musatti in “dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Forse ci aiuta ad illustrare la strada che il lavoro ha fatto dalla Costituzione di Weimar sino a quell’art. 1 della nostra Carta, che va analogamente interpretato nel senso che la Costituzione non identifica un soggetto privilegiato, né intende darsi il programma di bonificare con la propria razionalità il campo altrimenti animalesco del lavoro. Ma significa che la Costituzione deve avviare la propria costruzione trasformatrice della società appoggiandosi sulla – e nutrendosi dalla – falda vitale del lavoro. E quindi il lavoro deve “farsi” (werden) costituzione. Fin quando il diritto del lavoro e la sua magistratura sono riusciti a rimanere attaccati a quella falda, la Carta è stata nutrita e si è proceduto nel senso di un inveramento del suo programma costituzionale.
Quando invece il condotto si è ristretto con la modifica del paradigma produttivo e si è ostruito con le macerie del novecento, sono franate insieme le leggi sul lavoro, la cultura della giurisdizione e la forza complessiva della Costituzione nell’orientare i processi di trasformazione della società.

5.
In larga misura, quindi, oggi la funzione e il senso residuale del processo del lavoro e di quanti ne fanno parte (magistrati e avvocati), sono tenuti in piedi dagli irragionevoli, al cui elogio e ringraziamento è destinato questo breve scritto. Gli irragionevoli sono quei lavoratori che quando tutti – ma proprio tutti: i Giudici, i loro avvocati, i loro sindacati, l’esperienza ed il senso comune – dicono di lasciar perdere, di accettare la piccola offerta transattiva ricevuta (e talvolta neppure quella), di non proseguire, rispondono come il famoso scrivano Bartleby di Melville: “avrei preferenza di no”. Ma qui altre sono le figure letterarie che si vogliono brevemente indagare, prendendole da due grandi testi che si sono confrontati con la crisi della giustizia distributiva (e cioè di quella giustizia che dovrebbe ricompensare il giusto e punire l’ingiusto): il Libro di Giobbe e il “Michael Koolhas”, novella scritta nel 1808 da Heinrich von Kleist.

6.
Giobbe, lo sappiamo dal colloquio tra Dio e Satana in cui formulano la scommessa che precede l’avvio della storia, è uomo giusto. Ed anzi è scelto per la loro scommessa proprio perché giusto: si vuole vedere se, come dice Satana, egli loda il Signore e ne osserva le regole solo perché gli è andato sempre tutto bene nella vita. E Dio autorizza Satana prima a distruggere tutti i beni di Giobbe, poi a far morire i suoi figli ed infine a far marcire il suo corpo ricoprendolo di croste e vermi per saggiarne la resistenza e la probità. E allora da Giobbe si recano gli amici, (attenzione, si tratta di persone che si considerano veri amici e che vogliono davvero il suo bene) Elifaz, Bildad e Zofar, che gli portano una teologia ragionevole basata sulla teoria della retribuzione e sulla fondamentale giustizia del disegno divino. Se il Grande Giudice ti ha mandato questa punizione vuol dire che sei colpevole, accettala e pentiti, così gli dicono. E così spesso capita agli avvocati del lavoro, ugualmente pietosi, di dire ai propri clienti: accetta la piccola somma o il verdetto infausto del primo grado, e abbandona il giudizio. Anche Micheal Koolhas, commerciante di cavalli nella Sassonia del ‘500 e protagonista della bellissima novella di Kleist, è un uomo giusto (forse anche troppo) ed ha un’analoga esperienza di ingiustizia. Lo Junker locale von Tronka lo umilia, gli prende con l’inganno due cavalli da corsa e li usa per coltivare i propri campi, fa inoltre picchiare sin quasi ad ucciderlo il suo garzone rifiutandosi persino di restituirne l’umile bagaglio. Ed essendo von Tronka parente sia del magistrato incaricato di decidere della successiva causa intentata da Koolhas che del Principe elettore di Sassonia a cui il mercante di cavalli aveva mandato un appello (per consegnare il quale involontariamente viene uccisa la moglie), non è von Tronka ad essere punito ma Koolhas a venire diffidato dal non seccare più i magistrati con le sue querimonie. Ed anche a Koolhas il suo avvocato, compresa la situazione, “gli consigliò inoltre di cercare, senza insistere presso l’autorità giudiziaria, di recuperare i suoi cavalli che si trovavano al castello von Tronka”, il quale nel frattempo era disponibile a rendere i cavalli sfiancati e malridotti senza alcun riconoscimento della colpa, senza risarcimento del danno e senza alcuna pena per il furto e le gravissime lesioni al garzone. Ebbene sia Giobbe che Koolhas hanno perso il loro primo grado di giudizio, ed entrambi si sono rifiutati di accettare il verdetto e la transazione proposta. Koolhas non ascolta il suo avvocato come Giobbe non ascolta Elifaz, Bildad e Zofar. Insomma sono entrambi degli irragionevoli.

7.
Ma qua finiscono le somiglianze. Alla fine del suo giudizio, Giobbe non riebbe indietro i suoi figli né i suoi animali, morti gli uni come gli altri e su cui Dio non esercitò alcun miracolo riportandoli in vita. E però ebbe armenti due volte maggiori e “visse ancora centoquaranta anni, vide (altri, nda) figli e nipoti per quattro generazioni, poi morì vecchio e sazio di giorni”. Anche per Koohlas “nulla eguagliò la tranquillità e la contentezza dei suoi ultimi giorni” (p.123). E però sono molto diversi questi “ultimi giorni”, in quanto a Koolhas, dopo la sentenza di condanna a morte inflittagli a causa del suo essere insorto in armi con un esercito di pezzenti per ottenere che la sua causa contro von Tronka fosse vagliata con imparzialità dalla magistratura, venne posta l’alternativa tra avere “giustizia” e avere salva la vita andando in esilio. Ed egli preferì che la magistratura gli facesse riottenere i suoi due cavalli rimessi in piena forma (oltre che le povere vesti del garzone, il piccolo risarcimento dovuto e la condanna a due anni di carcere per lo Juncker) invece che avere la libertà quanto meno “per questo bel bimbetto biondo” e cioè per il suo piccolo figlio che sarebbe rimasto completamente orfano, come ricorda la vecchia zingara che gli porta la possibilità, da egli rifiutata, della fuga in cambio della rinuncia alla vendetta. Koolhas insomma – come alcuni dei lavoratori irragionevoli – cade progressivamente in un misticismo militante, con il suo portato di protezione attiva o di devozione passiva ad un ideale astratto di giustizia immaginaria, attorno al quale tutto inizia a girare. Nessun compromesso, nessuna sfumatura possono essere ammessi di fronte alla meta finale, che è la riconquista di un diritto originario dovuto al proprio sé idealizzato. Ed è così che Kohlhaas scivola nel delirio di megalomania e si definisce “luogotenente dell’Arcangelo Michele, venuto a punire col ferro e col fuoco… la malizia in cui era caduto il mondo intero”. Laddove si rompe il nesso tra etica e rapporto con l’altro, la Giustizia diviene un meccanismo che stritola tutto ciò che incontra, quali che siano i verdetti. Come recita la vecchia battuta “operazione riuscita, paziente morto”: lo stesso giorno in cui a Koohlas il suo nuovo avvocato porta il verdetto con cui ha finalmente vinto la causa contro Von Tronka, egli viene decapitato nella piazza principale di Berlino. Koolhas, insomma, pur vincendo perde.

8.
Del tutto opposto il processo di Giobbe che – invece – pur perdendo vince. Ed infatti, al contrario di Koolhas che continua a chiedere di avere i suoi due cavalli, egli non rivendica il suo diritto affinché tutto torni come un tempo, ma al contempo rifiuta la posizione di rinuncia e di autocolpevolizzazione che gli propongono i suoi amici pietosi, per cui la libera possibilità insita nel futuro verrebbe congelata nel passato come causa definitivamente persa. Giobbe non si arrende, ma non perché egli abbia fiducia nel grado di appello, anzi si sente chiamato all’azione perché “la terra è abbandonata in mano agli scellerati, velato è il volto dei suoi magistrati”. In nessun modo il dolore protestato da Giobbe pretende di trasformarsi in un diritto, ma solo in un dovere di non arrendersi all’assurdo: Giobbe non è colpevole, lo sa e resiste ad ogni dolore, per l’impellenza che un soggetto terzo prenda atto del suo rifiuto ad accettare colpe che non ha. Per lui l’ingiustizia della Giustizia non fonda nulla, non spiega nulla, inaugura solo la sua decisione di andare verso questo errore con un esercizio di libertà radicale che produce l’angoscia più estrema, pur essendo fondato sulla certezza incrollabile della propria innocenza. E Giobbe allora, dinanzi ad una pena che egli sente profondamente ingiusta, sfida in giudizio il suo Supremo Magistrato perché vuole finalmente essere visto, e di questo ne va della sua vita: “io grido a te e tu non mi rispondi, ti sto davanti e tu non mi guardi”. Ed è solamente nella speranza di ricevere indietro lo sguardo che egli sa di poter provare a riconciliare il desiderio di giustizia e la sofferenza che questa produce.

9.
Ebbene Giobbe viene finalmente visto ma perde il suo appello. Dio infatti non gli svela il mistero del perché la giustizia non punisca solamente gli empi ma – come nel suo caso – anche e spesso gli uomini retti. E anzi condanna la sua smisurata ambizione di capire e confutare le decisioni celesti urlandogli: “oseresti tu cancellare il mio giudizio, dare a me torto per avere tu ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio, e puoi tuonare con voce pari alla sua?” E Giobbe accetta l’incommensurabilità tra la propria capacità di capire e le questioni che pretende di sapere con le seguenti parole: “comprendo che tu puoi tutto… davvero ho esposto cose che non capisco”. Ma è a questo punto che il racconto si ribalta. Ed infatti Dio si rivolge ai tre amici pietosi Elifaz, Bildad e Zofar, quelli che a fronte delle sofferenze di Giobbe gli ripetevano che Dio non poteva sbagliare e che quindi lui doveva per forza essere colpevole e pentirsene. E dice a Elifaz che “la mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe”. E ordina loro di far sacrifici in onore di Giobbe e che sarà solo per l’intercessione e la preghiera di questo che egli non li punirà. Ed è con emozione viva che chi scrive immagina un Dio della Giustizia che chiami a se gli amici pietosi di oggi (Giudici, avvocati, sindacalisti, professionisti delle mediazioni e dei mezzi di risoluzione alternativi delle controversie ecc. ecc.) e li mandi a scusarsi, uno per uno, con tutti i lavoratori che essi hanno depredato del proprio diritto di comparire in giudizio ad affermare la propria innocenza, invitandoli ad essere convincenti con le scuse perché sarà solo per l’eventuale intercessione di quelli se non verranno puniti. Ed è solo dopo aver retto il terribile peso di rivendicare fino in fondo la propria innocenza che Giobbe ricomincia a vivere, a fare nuovi figli, ad allevare armenti fino a raddoppiare quanto egli aveva posseduto in precedenza. Insomma, come si è detto, Giobbe perde la causa, ma vince.

10.
E qui, dal confronto tra lui e Koolhas, emerge la polisemicità del verbo perdere. Koolhas perde la prima causa contro Von Tronka nel senso che “ha la peggio, riesce inferiore rispetto all’avversario”. Per Giobbe invece perdere è “cessare di possedere qualche cosa, restarne privo, non avere più la presenza o la compagnia di una persona”. E la differenza sta nel fatto che quando si “ha la peggio” c’è il rischio della giustizia come revanche. Ed invece se si “resta privi di qualcosa” c’è la possibilità del processo come lutto. E così il tempo del giudizio è il tempo dell’elaborazione per il lavoro perduto, per la sottrazione di mansioni e deleghe, per il crollo del reddito, per il cambio unilaterale di sede o per qualunque altro motivo il lavoratore Giobbe stava soffrendo ed era in Giudizio. E qui siamo all’etimo di perdere: Koolhas rivuole proprio e solo i suoi due cavalli, Giobbe accetta invece che Dio gli voglia “dare” qualcosa “al di là, oltre”. In Koolhas c’è solo sofferenza negativa, intesa come diminuzione. In Giobbe c’è anche una sofferenza positiva, intesa come desiderio di acquisizione e cioè possibile incontro doloroso con qualcosa che non si aveva (una certa conoscenza del mondo, una situazione che rende possibile uno scambio, un dono oppure il dare o ricevere un gesto d’amore)

11.
E gli avvocati dei lavoratori cosa possono fare? Bè intanto devono accogliere sia Giobbe che Koolhas e sostenerli entrambi nel loro sforzo etico, senza volersi sostituire ad essi nel decidere se sopportare o meno la sofferenza del percorso che si apre loro davanti. E ciò quanto meno perchè sono loro che stanno salvando, come si è detto, il processo del lavoro ed i suoi attori, per altro assumendosi rischi personali altissimi. E per questo vanno innanzitutto ringraziati e sostenuti. Ma tale accoglienza deve essere praticata ribaltando l’obbligo di “segreto professionale” nel suo opposto, e cioè in un obbligo di assoluta “trasparenza professionale” verso il cliente. Obbligo che va poi puntellato dagli stessi paletti “prudenziali” suggeriti da Paul Ricouer ai medici: 1) riconoscimento del carattere singolare di ogni caso, per quanti analoghi ne siano stati trattati in precedenza, fatto che implica sempre il carattere non sostituibile di ciascuna sofferenza e di ciascun lavoratore che la prova per quanto apparentemente banale ne sia l’origine; 2) l’indivisibilità del lavoratore, nel senso che non si deve valutare mai cosa è meglio per la causa (fosse anche abbandonarla) ma sempre cosa è meglio per il cliente, e mettere quest’ultimo nella condizione di prendere le relative decisioni; 3) la stima dei clienti verso se stessi e dell’avvocato verso di loro, che fondi un patto di corresponsabilità tra due partner e non un rapporto di sudditanza tra un esperto che ordina e un sottoposto che obbedisce. Ma se il dovere etico di non fare come gli amici di Giobbe o come il primo avvocato di Koolhas nasce dal fatto che “è meglio concedersi all’emozione e soggiacere alla sua violenza che liberarsene a mezzo di una qualsiasi operazione intellettuale o di movimenti di fuga”, comunque bisognerà prima di tutto fare tutto il possibile per vincerla questa benedetta causa, e fortunatamente accade ancora in un buon numero di casi. Ma comunque da subito occorrerà provare ad indirizzare il cliente verso la sempre presente possibilità della perdita come un generativo “restar privi” e non come un cieco “venire sconfitti”.

12.
E se dall’emozione dell’ingiustizia e della lotta “l’uomo deve venirne contagiato, perché altrimenti l’azione non lo raggiunge” va necessariamente aggiunto che “egli deve sapere, o meglio apprendere, che cos’è che l’ha contagiato, perché in tal modo egli trasforma da un lato la cecità della violenza e dall’altro quella dell’emozione in un Erkenntniss, in un valore di conoscenza”. E allora compito dell’avvocato degli irragionevoli sarà quello di dar loro comunque e sicuramente il “per”, e cioè un “di più”, ovverosia una storia. Ma non una qualunque, bensì la loro. Karen Blixen, nel suo romanzo autobiografico “La mia Africa”, trascrive un racconto che le facevano da bambina, quello di un uomo che nella notte si precipita nel campo al buio perché c’erano falle nell’argine, correndo a destra e a sinistra guidato solo dal rumore dell’acqua e cadendo molte volte. Tappati i buchi torna a dormire e la mattina successiva, affacciandosi alla finestra, vede che le orme provocate dai suoi passi frenetici e casuali avevano disegnato sul fango l’immagine perfetta di una cicogna. Il processo e i suoi atti sono l’occasione per il lavoratore di affacciarsi alla finestra e vedere il disegno di senso (non importa se umile o grandioso) dei propri passi che si credevano casuali. E che ciò accada è la condizione di possibilità per trasformare la sua sofferenza da negativa a positiva, capace cioè di consentire l’incontro con qualcosa che non aveva. Ed è in questo racconto che sta l’arte di perdere, o meglio di vincere sempre, anche quando la sentenza non è positiva.

13.
Ma tutto questo apre il problema per gli avvocati dei lavoratori di come convivere con tanta sofferenza, e con il possibile fallimento giudiziario che è il proprio prima ancora che del cliente. Al riguardo qui si vuole solo avanzare un’ipotesi di lavoro su cui occorrerà tornare. Non c’è dubbio che un avvocato il quale – per evitare la sofferenza – disinvestisse completamente dalla causa, la farebbe collassare. Ma al contempo se non ci fosse nessun disinvestimento, a collassare sarebbe l’avvocato. E allora occorre provare ad immaginare la possibilità di non vivere questo necessario equilibrio tra investimento e disinvestimento come un compromesso al ribasso, ma come movimento circolare che prenda l’energia tolta dal disinvestimento riemettendola nella causa non più come eccitazione agonistica verso la vittoria, bensì come creazione e “performazione” anche di una risposta alla domanda del cliente che sia un “al di là” rispetto al buon esito della causa, e che sappia persino in qualche modo procurare piacere (ovviamente di tutt’altro genere rispetto a quello generato della vittoria). Borges una volta disse di essere più orgoglioso dei libri che aveva letto piuttosto che di quelli che aveva scritto, affermazione evidentemente aforistica vista la grandezza dei suoi testi. Per un avvocato dei lavoratori, invece, rappresenta la meta di un percorso etico difficile ma possibile (se non addirittura doveroso) poter arrivare a dire – nei casi in cui si sarà stati capaci di accogliere un irragionevole accompagnandolo verso una disponibilità all’incontro con qualcosa che non aveva – che si debba soffrire per ogni causa persa, ma al contempo che si possa essere più orgogliosi di quelle che non dei processi vinti.