Il licenziamento discriminatorio del disabile per superamento del comporto: la Suprema Corte consolida il suo orientamento (Cass. 21/12/23 n. 35747)
di Michelangelo Salvagni
Corte di Cassazione 21 dicembre 2023, n. 35747: il licenziamento discriminatorio del disabile per superamento del comporto.
- Licenziamento del disabile per superamento del comporto e discriminazione indiretta: i termini della questione.
Alla luce dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione (cfr. Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747), appare consolidarsi l’indirizzo sulla nullità del licenziamento del lavoratore disabile (o portatore di handicap), per discriminazione indiretta, in ragione del superamento del periodo di comporto causato dal mancato scomputo delle assenze collegate alle proprie patologie. Il tema d’indagine riguarda le seguenti principali direttrici:
a) il possibile allargamento della nozione di “handicap”, di derivazione comunitaria, come mutuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, anche per patologie - a carattere duraturo e tali da ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nell’adempimento della propria prestazione - che non rientrano in quelle tabellari o “validate” dagli organi competenti che riconoscono i casi di invalidità ex l. 68/99 o di disabilità ex l.104/92;
b) la nullità delle clausole dei contratti collettivi, per discriminazione indiretta a norma del d.lgs. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE), allorchè esse non prevedano lo scomputo delle malattie dovute a disabilita o handicap;
c) l’obbligo di accomodamenti ragionevoli che il datore deve adottare al fine della salvaguardia del posto di lavoro del disabile;
d) la ripartizione degli oneri probatori, anche con riferimento alla circostanza che, secondo la Suprema Corte, la discriminazione opera oggettivamente.
- La nozione eurounitaria di handicap: la Direttiva 2000/78/CE, gli orientamenti della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione.
La Corte di Giustizia è stata investita più volte della questione se possa costituire o meno una discriminazione indiretta il licenziamento per superamento del periodo di comporto in ragione di assenze per gravi patologie. In merito, la giurisprudenza eurounitaria, chiamata a pronunciarsi sulle differenze esistenti, ai fini della tutele, tra malattia e disabilità, ha affermato che la nozione di handicap, di cui alla Direttiva 2000/78, deve essere interpretata nel senso che essa include “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata” (in tal senso, C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16. Sulla stessa falsariga, in un’accezione allargata di disabilità, si veda anche Corte giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fag og Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità rientra nella nozione di handicap, ai sensi della Direttiva 2000/78, allorché sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale).
A conferma di tale obbligo di “protezione rafforzata” del portatore di handicap, proprio in ragione del fattore rischio a cui quest’ultimo è soggetto, si segnala anche Corte giust., 11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11, punto 91, secondo cui “non si deve (…) ignorare il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta alla loro condizione” (principio questo più volte richiamato dalla giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità).
Da ultimo, la Corte di giustizia, con sentenza del 18.01.2024, nella causa C-631/22 (in wikilabor.it), richiamando altre proprie decisioni (cfr. sentenza del 21.10.2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C-824/19, EU:C:2021:862, punto 59 e giurisprudenza ivi citata), ha ribadito che la direttiva 2000/78 deve essere interpretata in conformità con le disposizioni della Convenzione ONU, al cui art. 2 viene previsto che per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.
- L’autonomia della nozione di handicap a prescindere dal riconoscimento della disabilità da parte del diritto interno.
Sul tema occorre altresì precisare che il concetto di disabilità “scollegato” dal riconoscimento, da parte degli Organi competenti, dell’invalidità ex l. 68/99 o dei benefici della l. n. 104/92, trova il proprio fondamento, oltre che nel sopra richiamato orientamento della giurisprudenza eurounitaria, anche nella giurisprudenza nazionale.
In merito la Suprema Corte, con riguardo al tema della disabilità derivata da una situazione di infermità di lunga durata - tale da non consentire al dipendente di effettuare l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri prestatori - ha affermato “l’assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla legge 104 del 1992” (cfr. Cass. 27 settembre 2018, n. 23338).
Con riferimento a tale orientamento, recentemente, si sono poi espresse in ordine cronologico: il Tribunale di Ravenna, sentenza del 27 luglio 2023, la Corte Appello di Roma, sentenza del 27 novembre 2023 (in RGL-online), il Tribunale di Rovereto, sentenza del 30 novembre 2023 e il Trib. di Roma, ordinanza del 18 dicembre 2023 (in wikilabour.it), secondo cui le patologie sofferte dal lavoratore rientravano nella definizione di handicap, come elaborata dalla Corte di Giustizia, in quanto era di lunga durata e rappresentava una “minorazione fisica idonea a ostacolare la sua partecipazione in condizioni di parità alla vita professionale” (in tal senso, Trib. Rovereto, 30 novembre 2023), come dimostrato dalla documentazione medica allegata dai lavoratori.
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, ai fini dell’accertamento di condotte discriminatorie sul luogo di lavoro, non rileva che la disabilità non sia stata riconosciuta ai sensi della l. 104/1992, della l. 68/1999 o, comunque, non rientri nelle varie definizioni di inidoneità o inabilità dettate da discipline settoriali di diritto interno. Infatti, si evidenzia al riguardo che non esiste una definizione di disabilità univoca tra i vari settori dell’ordinamento e, in ambito giuslavoristico, la condizione di disabilità dipende solo dall’accertamento della menomazione fisica del lavoratore (cfr. in merito anche Cass. 23338/2018; Trib. Milano,12 giugno 2019).
- Gli accomodamenti ragionevoli nell’esegesi giurisprudenziale: una tutela rafforzata nei confronti del lavoratore disabile.
L’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, prevede che i datori di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, sono obbligati ad adottare accomodamenti ragionevoli entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo.
A norma poi dell’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli”. Tale Direttiva è stata più volte richiamata dal giudice europeo e, in particolare, nella sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, ove si legge che gli “Stati membri devono stabilire nella propria legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati e cioè efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (…) senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”.
In tema di accomodamenti ragionevoli, le prime sentenze della Suprema Corte che si sono occupate della materia hanno trattato la fattispecie del licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore. In tali arresti, i giudici di legittimità hanno richiamato, a supporto delle proprie motivazioni decisorie, i riferimenti normativi eurounitari ed internazionali che caratterizzano la tematica della discriminazione dovuta all’handicap (cfr. Cass. 19 marzo 2018, n. 6798 e Cass. 22 ottobre 2018, n. 26675, entrambe pubblicate in RGL, n. 2, II, 2019, 244 ss., con nota di Salvagni, Licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica: reintegrazione per mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e per violazione del repêchage. Su tali arresti di legittimità, si veda anche Aimo, Inidoneità sopravvenuta alla mansione e licenziamento: l’obbligo di accomodamenti ragionevoli preso sul serio dalla Cassazione, in RIDL, 2019, 1, II, 161 ss. In tema, cfr. anche Cass. 12 gennaio 2017, n. 618, in LG, 2017, n. 4, 326).
Sempre sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza del 26 ottobre 2018, n. 27243, ha affermato che “il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possono ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.
Successivamente, i giudici di legittimità hanno confermato tale orientamento affermando che l’obbligo di accomodamenti ragionevoli, imposto ex lege al datore di lavoro, deve essere inteso come condotta pro-attiva tesa all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, salvo che ciò comporti costi eccessivi per l’Azienda (cfr. Cass. 9 marzo 2021. n. 6497).
La giurisprudenza di merito, in più occasioni, ha accolto l’orientamento della Cassazione relativo all’adozione di accomodamenti ragionevoli ai fini della salvaguardia del posto di lavoro del soggetto disabile (in termini, si vedano: Trib. Roma, 8 maggio 2018, est. Orrù, Trib. Ivrea, 6 luglio 2018, est. Buffoni, Trib. Asti, 23 luglio 2018, est. Antoci, tutte in RGL, 2019, n. 2, II, 283 ss.).
Tra gli “accomodamenti” più efficaci e di semplice soluzione, senza alcuna eccessiva onerosità per il datore, è stato stato individuato quello della sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap (in merito, ex multis, Trib. Milano, sent. n. 2875/2016; nello stesso senso, Trib. Milano, sentenza n. 487/2020, nonchè App. Roma, sentenza n. 2589/2020; in senso contrario, App. Torino, sentenza n. 604/2021 e App. Palermo, sentenza n. 111/2022).
Sempre in tema di accomodamenti ragionevoli, secondo la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 17 gennaio 2023, l’azienda ha a disposizione una serie di misure e sostegni per poter sopportare tale carico ed evitare la discriminazione indiretta, come ad esempio: controllare, in maniera costante, l’idoneità alla mansione del lavoratore; oppure, non computare le assenze dovute alla malattia che ha cagionato la disabilità; infine, in alternativa, la riduzione dell’orario di lavoro (sulla riduzione dell’orario di lavoro, quale accomodamento ragionevole, si veda anche Trib. Ivrea, 6 luglio 2018).
Altre pronunce hanno indicato poi, quali accomodamenti ragionevoli, possibili e non eccessivamente onerosi per il datore di lavoro, quelli della sospensione del dipendente senza retribuzione, ai sensi dell’art. 10, l. n. 68/99, per tutto il tempo in cui persista la patologia incompatibile con il lavoro (Corte di appello Genova, 9 giugno 2021); oppure, la ridistribuzione dei compiti tra lavoratori in maniera da assegnare al prestatore mansioni compatibili con le proprie patologie (Trib. Pisa, 16 aprile 2015, nonché Trib. Roma, 8 maggio 2018); ed ancora, la creazione di un nuovo posto di lavoro (Trib. Ivrea, 6 luglio 2018), con la considerazione, da ultimo, che tale adibizione non possa arrivare al punto di mortificare la dignità del lavoratore con mansioni notevolmente inferiori rispetto sia al proprio livello sia alla precedente professionalità, laddove esistano in azienda posizioni compatibili che prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro (Trib. Lodi, 9 febbraio 2023).
- La querelle formatasi nella giurisprudenza di merito sul licenziamento del disabile per superamento del comporto: i due principali filoni.
Sul licenziamento del disabile per superamento del comporto, con riferimento alla contrattazione collettiva che non prevede periodi di comporti differenziati tra lavoratori abili e disabili o che, invece, non stabilisce lo scomputo dal comporto delle assenze dovute all’handicap, si è sviluppato una vera e propria querelle nella giurisprudenza di merito che, nel tempo, ha generato due filoni principali.
Il contrasto giurisprudenziale formatosi sino ad oggi, recentemente, ha trovato una prima soluzione interpretativa nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e la recente Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747).
I diversi orientamenti di merito, tuttavia, risultano di attuale e rilevante interesse proprio in ragione dei principi espressi con riferimento sia alla nozione “allargata” di disabilità, sia agli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro deve adottare per tutelare i soggetti affetti da handicap (sul punto, per una ricostruzione dei diversi orientamenti della giurisprudenza di merito, cfr. Salvagni, Il “prisma” delle soluzioni giurisprudenziali in tema di licenziamento del disabile per superamento del comporto: discriminazione indiretta, clausole contrattuali nulle, onere della prova e accomodamenti ragionevoli, in LPO, 3-4, 2023, 215 ss.; nonché si veda Bono, Disabilità e licenziamento per superamento del periodo di comporto, in LG, 1, 2023, 25 ss.).
Decisioni che s’incentrano sull’interpretazione delle normative antidiscriminatorie, in particolare quelle di origine internazionale e eurounitarie che caratterizzano la fattispecie, e che richiamano, nelle loro statuizioni, le sentenze della Corte di Giustizia e della Suprema Corte.
In estrema sintesi, di seguito si evidenziano le soluzioni che caratterizzano i due orientamenti giurisprudenziali.
Un primo indirizzo che, basandosi su un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2110 c.c., e sulla scorta di quanto precisato dalla giurisprudenza eurounitaria, ha osservato come la previsione di un periodo di comporto, la cui quantificazione prescinda tout court dalla “disabilità” del lavoratore, configura un’ipotesi di “discriminazione indiretta”, a norma del d.lgs. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE).
Tra i provvedimenti più significativi di questo primo filone pare opportuno segnalare, in ordine cronologico: il Tribunale di Pisa, ordinanza del 16 aprile 2015, il Tribunale di Milano e, in particolare, le decisioni del 28 ottobre 2016, del 6 aprile 2018 e del 12 giugno 2019, nonché i successivi arresti del Tribunale di Verona del 22 marzo 2021, della Corte di appello Firenze del 26 ottobre 2021, del Tribunale di Milano del 22 maggio 2022 (in wikilabor.it), del Tribunale di Lecco del 26 giugno 2022, del Tribunale di Mantova del 22 settembre 2022; seguite, poi, da quelle della Corte di appello di Milano del 9 dicembre 2022, del Tribunale di Parma del 9 gennaio 2023, della Corte di appello di Napoli del 17 gennaio 2023, del Tribunale di Lecco del 23 gennaio 2023 e della Corte di appello di Milano del 16 febbraio 2023.
In estrema sintesi, a parere di tali arresti giurisprudenziali (che per inciso richiamano sul punto l’orientamento della Corte di Giustizia, 11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11), la previsione di un comporto uguale per tutti, superato il quale si configura la licenziabilità del dipendente, determinerebbe l’adozione di un criterio apparentemente neutro che, tuttavia, comporta effetti più sfavorevoli per i lavoratori disabili.
Con riferimento, invece, alle decisioni di indirizzo opposto, si segnalano: App. Torino, 26 ottobre 2021, Trib. Venezia, 7 dicembre 2021, n. 6273, App. Palermo, 14 febbraio 2022, n. 111, Tribunale di Vicenza, 27 aprile 2022, n. 181, Trib. di Bologna, 19 maggio 2022, n. 230 (entrambe in www.labor.it) e, da ultimo, il Tribunale di Lodi, sentenza del 12 settembre 2022.
Questo diverso orientamento, ha ritenuto che la legislazione eurounitaria lasci un ampio margine di discrezionalità in ordine ai ragionevoli accomodamenti da adottare per tutelare il lavoratore affetto da handicap o disabilità. In particolare, è stato osservato che la mancata previsione da parte del contratto collettivo di periodi di comporto diversificati non determinerebbe alcuna discriminazione indiretta in quanto, in linea generale ed astratta, non vi sono ragioni nell’ordinamento italiano per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri, con particolare riguardo alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia (cfr. Tribunale Lodi, sentenza del 12 settembre 2022). Sulla stessa falsariga il Tribunale di Venezia, ordinanza n. 6273 del 2021, secondo cui “ritenere che dalle assenze per malattia debbano essere espunte quelle determinate dallo stato di handicap ... determinerebbe, nella sostanza, una disapplicazione della norma per la maggior parte delle ipotesi”. Dovendosi poi evidenziare che secondo questo filone giurisprudenziale, ai fini di scomputare le malattie dovute alla disabilità, fosse imposto al lavoratore l’obbligo di comunicare al datore le malattie “invalidanti” (cfr. App. Torino, 26 ottobre 2021).
- 31 marzo 2023, 9095: la prima decisione di legittimità in materia di licenziamento nullo del disabile per discriminazione indiretta.
La sentenza di Cass. 31 marzo 2023, n. 9095, ha segnato una prima importante indicazione interpretativa che, in un certo senso, ha aderito a quel filone giurisprudenziale di merito della discriminazione indiretta allorchè non vengano scomputate dal comporto le patologie collegate alla disabilità (per un primo commento a tale arresto di legittimità, cfr. Salvagni, Il licenziamento del disabile per superamento del comporto: discriminazione indiretta e clausole collettive nulle, in RGL, 3, II, 2023, Newsletter n. 8-9, 2023, 3 ss.).
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno confermato la nullità del recesso per superamento del comporto in ragione delle assenze dovute all’handicap, osservando che si fosse configurata una discriminazione indiretta nei confronti del prestatore in quanto “la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio” (cfr. Corte giust., 11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11).
La Suprema Corte, a supporto di tale assunto, ha osservato che nel momento in cui “la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva”.
A seguito di tale primo arresto di legittimità si sono successivamente formati altri provvedimenti di merito che hanno aderito all’orientamento della Suprema Corte in tema sia di licenziamento nullo per discriminazione indiretta, in ragione del mancato scomputo delle assenze dovute all’handicap, sia dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli che il datore deve adottare per evitare il superamento del comporto. Sì vedano infatti, da ultimo, il Tribunale di Ravenna, sentenza del 27 luglio 2023, Corte di Appello di Roma, sentenza del 27 novembre 2023, n. 3716, est. Scarafoni, nonché il Tribunale di Rovereto. Sentenza del 30 novembre 2023, est. Cuccaro, e, da ultimo, il Trib. Roma, ordinanza del 18 dicembre 2023, est. Lionetti (con riferimento ad una recente ricostruzione dei principi di questi ultimi provvedimenti di merito, si rimanda a Menicucci, La nozione europea di disabilità, il licenziamento per superamento del comporto e la possibile reintegra per discriminazione, in IlSole24ore-modulo 24 contenzioso lavoro, del 24 gennaio 2024).
- 21 dicembre 2023, n. 35747 batte un secondo colpo: discriminazione indiretta, conoscibilità della disabilità e ripartizione dell’onere della prova.
La Suprema Corte, da ultimo, con la sentenza del 21 dicembre 2023, n. 35747, ha confermato il sopra citato orientamento di Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 (i cui principi sono stati richiamati espressamente nella motivazione) sulla nullità del licenziamento per superamento del comporto dovuto a patologie che, alla stregua della direttiva 2000/78 e dell’elaborazione delle sentenze della Corte di Giustizia, rientrano in una nozione di disabilità e/o handicap.
A parere di tale sentenza, costituisce, infatti, discriminazione indiretta la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, i quali proprio in conseguenza della loro condizione di handicap, si trovano in una posizione di particolare svantaggio.
Nel merito, la pronuncia di legittimità riguarda un caso analogo a quello trattato da Cass. n. 9095/23. In particolare, la Corte di Appello di Milano aveva accertato che la gravità delle plurime patologie di cui il lavoratore risultava cronicamente affetto (ipovisus per retinite pigmentosa, cardiopatia ipertensiva, insufficienza renale cronica, sindrome di Klinefelter), implicassero, in modo stabile, duraturo e tendenzialmente ingravescente, quanto meno una difficoltà nell’esercizio della sua attività lavorativa (del resto coerentemente con un grado di accertata invalidità civile pari all’85%), oltre che la necessità di fruire di ricorrenti periodi di cura e riposo.
In punto di diritto, si segnala che la Suprema Corte, con riferimento alla rilevanza oggettiva della discriminazione, ha puntualmente osservato - quanto alla consapevolezza dei motivi delle assenze del lavoratore da parte del datore - che lo stato di disabilità del lavoratore fosse un dato conosciuto dal medesimo per “essersi egli difeso nel giudizio sostenendo di aver sempre adibito il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute (pag. 13, rigo 18 della sentenza)”.
Per i giudici di legittimità, tale circostanza comprova la cognizione da parte del datore di lavoro sia della situazione di assenza ripetuta del lavoratore per malattia, sia della sua condizione di disabilità e, pertanto, del suo rischio di assentarsi maggiormente dal lavoro per morbilità.
Fatti questi, afferma la Corte, “certi, specifici e obiettivamente verificabili in virtù dei quali si può dunque ragionevolmente affermare - contrariamente a quanto si sostiene reiteratamente nei motivi di ricorso - che il medesimo datore di lavoro potesse senz’altro prevedere, attraverso una valutazione combinata di entrambe le circostanze, che la condizione di disabilità del lavoratore si ponesse, come probabile fattore causale, all’origine delle assenze dal lavoro di cui si discute; sicché il datore, in base a diligenza e buona fede, fosse pure tenuto ad agire sul piano della disciplina del rapporto ed organizzativo - anche attraverso "soluzioni ragionevoli" - per neutralizzarne o ridimensionarne la portata ai fini del computo del comporto del lavoratore disabile, evitando così che si producesse il risultato discriminatorio vietato di cui si è discusso nella causa”.
In ogni caso, anche Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747, conferma il principio già espresso anche da Cass n. 9095/23, per cui la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo l’assunto datoriale di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell’assenza.
La discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (in tal senso, quale sentenza che rappresenta un vero e proprio “spartiacque”, rispetto alla qualificazione del licenziamento discriminatorio e alla ripartizione degli oneri probatori, cfr. Cass. 5 aprile 2016, n. 6575, in Labor, 2016, 269, con nota di Galardi; in RIDL, 2016, II, 729, con nota di Gottardi; in RGL, 2016, II, 469, con nota di Scarponi).
Con riferimento poi alla ripartizione degli oneri probatori nei giudizi antidiscriminatori, i giudici di legittimità osservano che i criteri non sono quelli dei canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui al d.lgs. n. 216 del 2003, art. 4 (in merito all’evoluzione giurisprudenziale con riferimento alla differenziazione tra licenziamenti discriminatori e ritorsivi, sia consentito rimandare a Salvagni, Licenziamenti discriminatori e ritorsivi: evoluzione della giurisprudenza e ripartizione dell’onere della prova, in LPO, 5-6, 2018, 287 ss.).
Si tratta non tanto di un’inversione dell’onere probatorio, quanto, piuttosto, di un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo la norma una “presunzione” di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui il “denunciante” abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori.
A tale impostazione degli oneri probatori, proseguono i giudici di legittimità, consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta.
Michelangelo Salvagni, avvocato in Roma